IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE Sezione prima penale In composizione monocratica in persona del giudice dott. Stefano Sernia. Sciogliendo la riserva formulata all'udienza dibattimentale del giorno 27 settembre 2018 nel processo nei confronti di: P G , nato a ... il ... C M , nata a ... il ... letti gli atti e sentite le parti, ha pronunziato la seguente: Ordinanza Si procede a giudizio abbreviato a seguito di rituale istanza avanzata dai difensori di fiducia degli imputati, muniti di procura speciale; gli imputati sono liberi ed assenti. La prova riposa pressocche' interamente sugli esiti della perquisizione eseguita dalla polizia giudiziaria presso l'abitazione degli imputati, su autorizzazione orale del pubblico ministero, rilasciata dopo che la polizia giudiziaria aveva segnalato che P L aveva riferito di aver incontrato per causa gli imputati, rilevando che il P indossava il giubbino che al P era stato sottratto in occasione di un furto consumato da ignoti presso la sua abitazione alcuni giorni prima; venivano cosi' rinvenuti gli altri oggetti indicati in imputazione, provenienti dal medesimo furto; non e' in atti il verbale delle dichiarazioni in tal senso rese dal P , il quale peraltro e' soggetto ipovedente, come indicato nell'informativa, sicche' non e' chiarito come questi possa aver formulato quel giudizio di certezza in ordine all'identita' tra il giubbino indossato dal P e quello sottratto dalla propria abitazione: valutazione gia' ardua per persone normovedenti, dato che i capi di abbigliamento sono oggetto di produzione seriale che ne annulla l'individualita'. In assenza degli esiti della perquisizione, difetterebbe quindi una prova adeguata di responsabilita'. Occorre quindi interrogarsi sulla liceita' - e conseguente utilizzabilita' - della perquisizione, oggetto un'attivita' della cui legittimita' costituzionale appare oltremodo dubbia la ricorrenza. Premesso che dall'art. 382 del codice di procedura penale si evince che la situazione di flagranza e' quella che si presenta allorche' la consumazione del reato cade sotto la percezione degli organi di polizia giudiziaria, ovvero questi rilevano direttamente sulla persona del reo tracce altamente significative che egli abbia appena commesso un delitto, e non gia' ne abbiano notizia da parte di terzi (cfr. ad es. quanto statuito dalla nota sentenza della Corte di cassazione SS.UU. n. 39131 del 24 novembre 2015, che ha precisato che «E' illegittimo l'arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell'immediatezza del fatto, poiche', in tale ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi flagranza", la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all'arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l'indiziato»), va invece osservato che, nel caso in oggetto, l'eventuale prova di accusa poggerebbe tutta ed esclusivamente sugli esiti della perquisizione domiciliare eseguita dalla polizia giudiziaria fuori del caso della flagranza del reato e senza che siano esplicate le evidenze fattuali, di diretta percezione ad opera della polizia giudiziaria, che possano aver indotto al compimento di un atto, che gli articoli 14 e 13 della Costituzione vogliono essere del tutto eccezionale, e che le stesse norme che consentono la perquisizione fuori dei casi di flagranza (peraltro non applicabili al caso in oggetto) vincolano a precisi presupposti. Si pone quindi il problema della liceita' della perquisizione e della utilizzabilita' dei suoi esiti; e della costituzionalita' della disciplina in tal senso vigente, quale risultante del diritto vivente nascente dalla monolitica giurisprudenza di legittimita', stabilmente applicata anche in sede locale dal competente Tribunale del riesame e dalla Corte di appello. La questione e' gia' stata sollevata da questo stesso magistrato quale GUP con ordinanza emessa in data 5 ottobre 2017, e successivamente nuovamente e piu' approfonditamente articolata con ordinanza emessa, sempre in veste di GUP, ed alle udienze del 12 dicembre 2017 e del 13 settembre 2018 (in due distinti processi), quale Giudice del dibattimento; di tali ordinanze si riproducono in questa sede le argomentazioni. Invero, la situazione di flagranza di reato, che evidentemente si e' manifestata solo dopo la perquisizione, non puo' aver quindi svolto la funzione di preventiva legittimazione di tale atto di ricerca della prova, che la legge ordinaria (articoli 354 e 356 del codice di procedura penale) e costituzionale (articoli 13 e 14 della Costituzione) assegnano solo in via eccezionale all'ambito dei poteri della polizia giudiziaria, in deroga al principio generale per cui simili atti, limitando la liberta' personale (e della inviolabilita' del domicilio per quel che attiene alla perquisizione domiciliare), possono essere disposti solo dall'Autorita' giudiziaria e nei casi e modi previsti dalla legge. Cio' premesso, va sottolineata la cautela del legislatore costituzionale, che ha assegnato solo all'Autorita' giudiziaria il potere di disporre atti di perquisizione ed ispezione, prevedendo solo in via eccezionale quelli [rectius quello] della polizia giudiziaria ed entro ambiti ben delimitati, fissati dalla legge, e con rispetto delle garanzie di liberta' della persona. I limiti fissati dalla legge si atteggiano, invero, in ragione della previsione costituzionale che li assiste, come invalicabili e di stretta interpretazione; e qualsiasi interpretazione che, comunque, si risolva in una vanificazione dei limiti posti alla polizia giudiziaria (ad es., impedendo la verifica circa il rispetto di tali limiti; o stabilendo l'irrilevanza processuale di tali violazioni) o nella lesione - sia pure mediata - della liberta' personale, appare da rigettarsi. Invero, l'art. 13 della Costituzione (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall'art. 14 della Costituzione in tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prescrive che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra i quali annovera non solo l'arresto o il fermo, ma anche le perquisizioni e le ispezioni personali - sia riservato ad «atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; riserva di legge e di provvedimento dell'Autorita' giudiziaria, quindi, cui puo' derogarsi solo per casi eccezionali previsti dalla legge, atteso che la norma prosegue prevedendo che solo «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia». L'art. 14 della Costituzione estende agli atti di perquisizione domiciliare le garanzie dettate per le perquisizioni personali, in considerazione della primaria importanza che la tutela dell'inviolabilita' del domicilio assume quale strumento di protezione della sfera spaziale in cui si svolge l'abituale esercizio di fondamentali diritti della persona. I suddetti diritti sono quindi assistiti - a sottolinearne l'importanza nell'assetto democratico dell'ordinamento repubblicano voluto dal Legislatore costituzionale come fondato sulla tutela di quelle liberta' individuali tendenzialmente negate o fortemente compresse dal precedente regime - da un corredo di significative cautele date dalla riserva di legge, dalla riserva del potere giudiziario, dall'obbligo di provvedere con atto motivato. Solo in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, che spetta alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza (e cioe' alle forze di polizia, che di tali compiti sono titolari unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito un potere di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in caso di mancata convalida da parte dell'Autorita' giudiziaria con provvedimento che, sebbene cio' non sia espressamente previsto dalla norma, deve ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato che non vi e' ragione di ritenere che il Legislatore costituzionale, per l'ipotesi di particolare delicatezza costituzionale data della convalida (la cui funzione e' verificare che la polizia giudiziaria non abbia agito in tali delicatissime materie abusando dei propri poteri, fuori dei casi in cui essi sono loro riconosciuti), abbia voluto esonerare l'Autorita' giudiziaria dalla necessita' di motivare i propri provvedimenti (come peraltro previsto gia' in via generale dall'art. 111, comma 6, della Costituzione). Come si e' accennato, tali garanzie sono estese dall'art. 14 della Costituzione anche al caso delle perquisizioni, ispezioni e sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma opera alle garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per la tutela della liberta' personale. L'ipotesi principale ed originaria prevista dalla legge ordinaria a legittimare l'intervento eccezionale delle forze di polizia, e' data dai casi di flagranza di reato, allorche' gli organi di polizia intervengono in un momento in cui il reato e' in corso di esecuzione, o il reo, subito dopo la commissione del reato, ne reca indosso le tracce, o e' inseguito dalla polizia, dalla persona offesa o da altri: casi di evidenza probatoria che, nel giudizio del legislatore, rendono meno pericolosa la deroga ai poteri dell'Autorita' giudiziaria (cfr. sul punto anche Corte di cassazione SS.UU. 39131/2015 che ha anche statuito, in tale linea di pensiero, che la c.d. quasi flagranza rileva solo in quanto le forze di polizia abbiano assistito alla commissione del reato o abbiano direttamente percepito le tracce del reato sulla persona del reo). Non si e' mai dubitato che le ipotesi della flagranza di reato, concorrendo il requisito della pericolosita' dell'autore come segnalata dalla sua personalita' o dalla gravita' del reato (pericolosita' e gravita' presunte nei casi dei piu' gravi delitti di cui all'art. 380 del codice di procedura penale, e da valutarsi nel concreto nei casi di cui all'art. 381 del codice di procedura penale) valgano ad individuare delle ipotesi generali di necessita' ed urgenza tassativamente ben delineate, in cui si giustifichi l'esercizio provvisorio dei poteri di arresto da parte della polizia giudiziaria; cosi, in relazione alla gravita' del reato (che la legge ancora all'entita' della pena o all'appartenenza a ben definite tipologie di delitto), il pericolo di fuga appare altra situazione di necessita' ed urgenza che legittimi l'esercizio del potere di fermo e la conseguente restrizione della liberta' personale. Allo stesso modo, senz'altro la flagranza del reato integra una situazione di necessita' ed urgenza quanto agli atti di perquisizione e conseguente sequestro ad opera della polizia giudiziaria, finalizzati ad acquisire al processo fonti di prova che altrimenti il reo, sapendo di' essere stato scoperto, provvederebbe verosimilmente a distruggere o disperdere; sicche' anche gli articoli 352 e 354 del codice di procedura penale appaiono rispettosi del dettato costituzionale. Sia per le perquisizioni e sequestri che per gli atti di arresto e fermo, la legge prevede poi la necessita' della convalida da parte dell'Autorita' giudiziaria, con provvedimento motivato, ed il dettato costituzionale e' rispettato. Puo' qui tralasciarsi la considerazione dei casi in cui norme speciali hanno ampliato i casi in cui alla polizia giudiziaria e' consentito procedere ad atti di ispezione e perquisizione, solo osservando che sia l'art. 4 della legge n. 152/1975, che l'art. 41 del TULPS, che l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, pongono, a fondamento dei poteri eccezionali di perquisizione di polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza, la necessaria ricorrenza di situazioni oggettive («specifiche o concrete circostanze di tempo o di luogo»; «fondato motivo»; «indizio» ecc.) atte a significare la probabilita' di attuale commissione di specifici delitti (tra i quali, e' noto, non rientra peraltro la ricettazione). Fuori delle ipotesi speciali appena richiamate, la polizia giudiziaria puo' procedere a perquisizione domiciliare (o personale) solo in caso di flagranza di reato; e 1'Autorita' giudiziaria deve operare un controllo effettivo sulla legalita' di tali perquisizioni, emettendo quindi un decreto motivato. Ed invero, sviluppando ulteriormente l'argomento gia' svolto con le precedenti ordinanze di rimessione, va ritenuto che nel disegno costituzionale - che intende fondare uno stato di pieno diritto, retto dal principio di legalita' e dalla previsione di garanzie giurisdizionali a verifica e controllo del modo e dei casi in cui le forze di polizia usino dei loro poteri, al fine di evitarne l'abuso - non possano sussistere limiti alla verifica giurisdizionale suddetta. Ammettere quindi che la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione fuori dei casi di flagranza, o su asserita autorizzazione orale e non documentata del pubblico ministero (che, si noti, ha successivamente convalidato sia il sequestro che la perquisizione, pur senza nulla specificare sui presupposti di quest'ultima), equivale a negare la necessita' dell'esercizio di un effettivo potere di verifica, da parte dell'Autorita' giudiziaria, che la legge ordinaria - e la Costituzione ancor prima - impongono debba sussistere. Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto conseguente, che, a fondamento della legittimita' di una perquisizione, e dell'utilizzabilita' dei suoi esiti, debba essere necessario che l'Autorita' giudiziaria abbia effettivamente preventivamente e con atto motivato autorizzato la perquisizione, o, successivamente, e sempre con atto motivato, verificato la ricorrenza della condizione di flagranza (o altra situazione prevista da norma speciale), che legittimi l'esercizio dei poteri di accesso domiciliare o perquisizione personale in capo alla polizia giudiziaria; in caso contrario si avrebbe - oltre che degli articoli 13 e 14 della Costituzione - una violazione degli articoli 111 e 117 della Costituzione (con riferimento all'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo) essendo solo apparente la possibilita' di godere dell'esame di un giudice imparziale ed indipendente, laddove questo Giudice non abbia un adeguato potere di verifica delle circostanze costituenti elementi a carico dell'imputato. E' bene sottolineare che questo Giudice ha sottolineato i profili di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano, a presupposto degli atti di perquisizione, elementi probatori particolarmente deboli o inutilizzabili, al solo fine di far risaltare l'importanza da riconoscersi alla tutela della liberta' personale e dell'inviolabilita' del domicilio e come tali materie siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di uno Stato di diritto, come disegnato dalla Costituzione e dalla CEDU, in cui il riconoscimento di diritti fondamentali della persona e' necessariamente accompagnato dalla previsione di un Giudice non solo imparziale ed indipendente, ma anche dotato degli strumenti di verifica e controllo atti ad assicurarne l'effettiva tutela; peraltro, in uno Stato di diritto, lo Stato e di suoi organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi di cui pur pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e cio' comporta non solo l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione si rinvengono pronunzie che statuiscono la nullita' del decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero in base a notizie confidenziali o denunzie anonime: Sez. 6, Sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito che «E' configurabile l'esimente della reazione. ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza ad un pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il suo domicilio una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art. 4 della legge 22 marzo 1975, n.152, alla ricerca di armi e munizioni fondata su meri sospetti e non su dati oggettivi certi, anche solo a livello indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel luogo in cui viene eseguito l'atto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la mancata convalida dell'arresto per il reato previsto dall'art.337 del codice di procedura penale all'imputato per essersi opposto alla perquisizione disposta dopo la contestazione di una contravvenzione al codice stradale, senza che fossero emersi indizi significativi circa il possesso di armi o di oggetti atti ad offendere); Sez. 6, Sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016, che ha statuito che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di reita'. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi utili per l'individuazione di una «notitia criminis». (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritentato legittimi l'attivita' di perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale informatico eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era emersa la pubblicazione in rete di numerosi post a contenuto diffamatorio pubblicati mediante l'account creato sul social network facebook a nome dell'imputato, indagato in relazione ai reati di cui agli articoli 278, 291 e 214 del codice di procedura penale). Sez. 6, Sentenza n. 36003 del 21 settembre 2006, che ha statuito che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di' reita'. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l'attivita' di iniziativa del Pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi utili per l'individuazione di una «notitia criminis». (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che la polizia giudiziaria aveva legittimamente proceduto alla perquisizione di un'autovettura e al conseguente sequestro di sostanza stupefacente, dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato). Sez. 5, Ordinanza n. 37941 del 13 maggio 2004 , che ha statuito che: «Il decreto di perquisizione e sequestro emesso a seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione di una «notitia criminis» e non come mezzo di ricerca della prova, e' nullo. Infatti la denuncia confidenziale o anonima, che non e' inseribile agli atti e non e' utilizzabile, non puo' essere qualificata come una notizia di reato idonea a dare inizio alle indagini preliminari, cosicche' l'accusa non puo' procedere a perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l'esistenza di indizi di reita'. Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema Corte, che a parere di questo giudicante rispondono pienamente ai principi costituzionali e convenzionali nella individuazione del minimum probatorio necessario a rendere legittima una perquisizione; di talche' non puo' ritenersi la ricorrenza di un diritto vivente che imponga di denunziare l'illegittimita' costituzionale delle opposte interpretazioni, pur non assenti nella giurisprudenza di legittimita'. Il caso presente differisce pero' da quelli considerati dalle richiamate pronunzie della Suprema Corte, riguardando il caso di perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza, su autorizzazione orale del pubblico ministero o da questi convalidate fuori dei casi previsti dalla legge e comunque in assenza di motivazione specifica su tali presupposti della perquisizione (come e' nel caso in oggetto, in cui si e' fatto riferimento solo alla situazione di urgenza che legittimava il sequestro ex art. 354 del codice di procedura penale). Riprendendo le fila del discorso, poiche' all'atto della perquisizione cui venne sottoposto l'imputato non risultava gia' evincibile una situazione di flagranza, quella compiuta dalla polizia giudiziaria si manifesta come una perquisizione domiciliare abusiva perche' assolutamente ingiustificata per l'assenza di un valido atto autorizzativo e compiuta al di fuori di una situazione di flagranza. Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state convalidate dal pubblico ministero con un provvedimento la cui motivazione non attesta alcuna delle situazioni che, normativamente, legittimano la polizia giudiziaria a procedere ad atti di perquisizione domiciliare (o personale). Non ricorrendo le ipotesi della flagranza o le altre ipotesi previste da leggi speciali che a tanto facultizzino le forze di polizia, deve ritenersi che gli atti di perquisizione, ispezione e sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti in violazione di un divieto, derivante dalla generale riserva di tali atti alla sola Autorita' giudiziaria; la conseguenza, in base a quanto previsto dall'art. 191 del codice di procedura penale, che sancisce la inutilizzabilita' delle prove vietate dalla legge, dovrebbe quindi essere la inutilizzabilita' degli esiti di detta perquisizione; ma la giurisprudenza della Suprema Corte, come meglio oltre si dira', e' assolutamente di segno contrario, nonostante la sanzione dell'inutilizzabilita' sembri emergere gia' direttamente a livello di previsione costituzionale. Come si e' detto, gli articoli 13 e 14 della Costituzione (che infatti richiama le garanzie dell'art. 13 della Costituzione) prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo' adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere di questo Giudice, che gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro abusivamente compiuti dalla polizia giudiziaria o non motivatamente convalidati dall'Autorita' giudiziaria rimangano senza effetto anche sul piano probatorio; la legge ordinaria ha quindi dato attuazione alla previsione costituzionale, prevedendo casi tassativi per l'esercizio dei poteri di arresto, fermo, perquisizione, ispezione e sequestro da parte delle forze di polizia, ed ha introdotto in via generale, con l'art. 191 del codice di procedura penale, la previsione della inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge; come pero' si vedra', il diritto vivente quale discendente dalla monolitica interpretazione delle norme di legge (in particolare, proprio dell'art. 191 del codice di procedura penale) dettate a sanzione di inutilizzabilita' dell'assunzione di prove vietate dalla legge, non assegna conseguenze di inutilizzabilita' agli esiti delle perquisizioni ed ispezioni compiute dalle forze di polizia fuori dei casi in cui la legge glielo consente; con il prevedere l'utilizzabilita' probatoria del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato acquisite grazie a tali perquisizioni ed ispezioni, anche se avvenute in violazione di un divieto, la Giurisprudenza della Suprema Corte (vero e proprio diritto vivente, stante la sua monoliticita'), a parere di questo Giudice, vanifica le garanzie costituzionali, dando luogo ad un diritto vivente che si pone in contrasto con esse, come meglio oltre si dira'. A prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13, comma 3, della Costituzione, gia' le ordinarie disposizioni processuali dovrebbero condurre al risultato interpretativo della inutilizzabilita' degli esiti della perquisizione illegittima, in presenza di una norma, come l'art. 191 del codice di procedura penale, che sanziona con l'inutilizzabilita' le prove acquisite in violazione di un divieto di legge. Ribadito che le prove a carico degli imputati consistono di quanto rinvenuto nella sua abitazione a seguito di una perquisizione domiciliare al di fuori dei casi e modi previsti dalla legge, va osservato che, in forza di quanto previsto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, cio' dovrebbe condurre all'inutilizzabilita' probatoria degli esiti della perquisizione e del sequestro, in quanto, essendo stata la perquisizione eseguita fuori dei casi e modi tassativamente previsti dalla legge e non convalidata con provvedimento motivato (sul punto relativo ai presupposti della perquisizione) dell'Autorita' giudiziaria, detti atti, in forza di quanto previsto dalle suddette norme costituzionali, «si intendono revocati e restano privi di ogni efficacia»: con linguaggio la cui chiarezza non e' stata finora adeguatamente apprezzata, il Legislatore costituzionale aveva cioe' chiaramente introdotto la sanzione dell'inutilizzabilita' degli esiti degli atti di polizia giudiziaria illegittimamente invadenti la sfera della liberta' personale. Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia» e' dalla norma costituzionale assegnata non solo alla illegittima esecuzione di atti di arresto o di fermo, ma genericamente e complessivamente al caso dell'adozione dei «provvedimenti» di polizia, in materia di liberta' personale, fuori dei casi previsti dalla legge; e - a meno di voler affermare che il Legislatore costituzionale abbia impiegato con imprecisione e scarsa padronanza la lingua italiana - i provvedimenti in questione non possono non essere che tutti quelli contemplati dalla norma stessa, e quindi anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13 della Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione che voglia limitare la previsione costituzionale della «perdita di efficacia» ai soli provvedimenti soppressivi della liberta' personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che l'art. 13 della Costituzione utilizza una formula onnicomprensiva (i «provvedimenti provvisori» adottabili dalla polizia giudiziaria) che a tutti i provvedimenti da detta norma contemplati risulta riferirsi, come evincibile anche dalla disciplina adottata dall'art. 14 della Costituzione, che espressamente li richiama «nominatim» («ispezioni, perquisizioni o sequestri») prevedendone l'adottabilita' da parte della polizia giudiziaria «secondo le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale» . Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel tempo (e di cui la norma costituzionale si' e' preoccupata di prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto ad atti di perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti e terminati nella loro esecuzione (come e' necessariamente, dato che ne e' prevista la convalida entro novantasei ore al massimo dalla loro esecuzione), e' solo quella che attiene alla loro capacita' probatoria; la sanzione di perdita dell'efficacia equivale quindi a quella, nel linguaggio del codice di procedura repubblicano, quarant'anni dopo l'approvazione della Costituzione, della inutilizzabilita' introdotta dall'art. 191 del codice di procedura penale per le prove assunte in violazione di un divieto di legge. E' bene precisare che l'art. 13 della Costituzione riconnette la conseguenza delle perdita di efficacia degli atti di polizia, alla circostanza che essi non vengano convalidati dall'Autorita' giudiziaria in un termine dato; ma la ratio della norma costituzionale sarebbe senz'altro frustrata se la convalida si risolvesse in una pura forma non esprimente un effettivo controllo circa la legalita' dell'atto di polizia giudiziaria; di qui la prescrizione (a parere di questo Giudice evincibile dal comma 2 dell'art. 13 della Costituzione, come si e' gia' osservato) che l'atto di convalida debba essere motivato, poiche' e' solo con un atto avente tali caratteristiche che l'art. 13 della Costituzione consente che l'Autorita' giudiziaria incida sulla liberta' personale: e non avrebbe senso prevedere la necessita' dell'atto motivato allorche' l'Autorita' giudiziaria, titolare in via ordinaria di tale potere, proceda di sua iniziativa, e non gia' allorche' debba verificare che la polizia giudiziaria non abbia esorbitato dai (od addirittura abusato dei) casi del tutto eccezionali in cui la legge le concede di intervenire in materia di liberta' personale. E' quindi ovvio che, nel sistema delineato dall'art. 13 della Costituzione, la convalida operi in quanto espressione di un effettivo potere di verifica in ordine alla concreta ricorrenza dei presupposti legali di esecuzione della perquisizione personale (non e' un caso, ad es., che lo stesso art. 103 del decreto del Presidente della repubblica n. 309/1990 prevede, come peraltro e' ovvio, che l'Autorita' giudiziaria convalidera' la perquisizione «ove ne ricorrano i presupposti»), e non sia sufficiente un mero provvedimento di convalida assolutamente immotivato sulla ravvisabilita' della situazione legittimante la perquisizione, personale o domiciliare: situazione che, nel vigente sistema, e' data fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato o dalla ricorrenza di fondate ragioni che inducano a ritenere che sia in corso l'esecuzione di un delitto in materia di stupefacenti o armi (con riferimento alle due norme - gli articoli 103 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 del TULPS - legittimanti la perquisizione fuori del casi di flagranza, di maggiore rilevanza statistica). Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di legge ordinaria, impongono che la polizia giudiziaria proceda a perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla legge, e che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte dell'Autorita' giudiziaria. Infatti, a proposito della necessita' di' una valutazione concreta e condivisibile da parte dell'Autorita' giudiziaria, circa la ricorrenza di ragioni adeguatamente giustificatrici dell'esercizio del potere di perquisizione, va anche richiamata, per l'assoluta importanza della fonte, che assegna alla decisione rilievo costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza l6 marzo 2017, Modestou c. Grecia, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (d'ora in poi per brevita' CEDU) ha ritenuto essersi verificata violazione dell'art. 8 Cedu, in un caso in cui era stata eseguita perquisizione presso il domicilio personale e professionale del ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e sulla scorta di un mandato di perquisizione generico; ne' era stato previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post, considerato che la Corte d'appello, adita dal ricorrente, aveva respinto la doglianza non solo piu' di due anni dopo la perquisizione in questione, ma nemmeno indicando neppure i motivi «rilevanti e sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale si trae quindi conferma che 1'Autorita' giudiziaria debba operare una illustrazione motivata (e condivisibile) delle ragioni della perquisizione, al fine di rendere verificabile la legittimita' dell'esercizio del relativo potere; statuizione che, se vale per le perquisizioni autorizzate dall'Autorita' giudiziaria , deve a maggior ragione valere per quelle operate direttamente dalla polizia giudiziaria e successivamente convalidate dalla Autorita' giudiziaria. Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato che l'art. 13 della Costituzione ricollega la salvezza degli effetti dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che, sebbene le nullita' degli atti per difetto di motivazione siano generalmente rilevabili ad eccezione di parte, in questo caso debba invece ritenersi che la ricorrenza di un atto di convalida adeguatamente motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti dell'atto di polizia giudiziaria, sia un elemento della fattispecie «sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio; cosi' come dovra' verificarsi che, a prescindere da quanto eventualmente affermato col provvedimento di convalida (si pensi ad es. al caso di una motivazione non aderente ai dati fattuali emergenti dagli atti; o che da questi tragga conclusioni assolutamente illogiche o non giustificate) , ricorressero effettivamente i presupposti perche' la polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri previsti in via del tutto eccezionale (sul punto, relativo alla portata dell'art. 191 del codice di procedura penale, si dira' meglio oltre). Tanto premesso, va peraltro preso atto che tali esiti epistemologici sono estranei alla interpretazione accolta dalla giurisprudenza assolutamente dominante che, a far data dall'insegnamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto la piena utilizzabilita' probatoria degli esiti delle perquisizioni e sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria al di fuori dei casi previsti dalla legge, pur prendendo le mosse .da statuizioni di principio di segno apparentemente opposto alle conclusioni finali. In realta', con la suddetta sentenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato a chiare lettere che la conseguenza di un'attivita' di illecita acquisizione della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non puo' limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o penali nei confronti dell'autore dell'illecito, ma deve comportare l'inutilizzabilita' della prova stessa, statuendo che: «non e' certamente difficile riconoscere che allorquando una perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei "casi" e nei "modi" stabiliti dalla legge, cosi' come disposto dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non e' piu' compatibile con la tutela del diritto di liberta' del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilita' del domicilio. L'illegittimita' della ricerca di una prova, pur quando non assuma le dimensioni dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 del codice penale), non puo' esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione del diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione di sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che ne sono stati gli autori. La perquisizione, oltre ad essere un atto di investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una prova preesistente e, quindi, diviene partecipe del complesso procedimento acquisitivo della prova, a causa del rapporto strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo' essere necessario o utile ai fini della indagine: nessuna prova, diversa da quelle che possono formarsi soltanto nel corso del procedimento, potrebbe essere acquisita al processo se una sua ricerca non sia stata compiuta e questa non abbia avuto esito positivo. Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca di una prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per se stessa sottratta alla materiale possibilita' di essere suscettibile di una diretta utilizzazione nel processo penale, e' altrettanto vero che il rapporto funzionale che avvince la ricerca alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non e' esauribile nell'area riduttiva di una mera consequenzialita' cronologica, come si era affermato in numerose pronunce di questa Corte prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, e com'e' stato, anche in epoca successiva, qualche volta, ribadito (cfr. Sez.1-17.2.1976 ric. Cavicchia; Sez. VI-23.1.1973 ric. Ferraro; Sez. V-24.11.1977 ric. Manussardi; Sez. 1-15.3.1984 ric. Zoccoli; Sez. VI-24.4.1991 ric. Lione; Sez. V-12.1.1994 ric. Vetralla, etc): la perquisizione non e' soltanto l'antecedente cronologico del sequestro. ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro.» Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero che esista una distinzione concettuale tra la perquisizione, quale mezzo di ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di acquisizione della prova, cio' non ha alcuna rilevanza ai fini della inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione illegittima, atteso che: «la stessa utilizzabilita' della prova e' pur sempre subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili, non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che, attraverso quel procedimento, sia stato conseguito. Del resto, non puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso ordinamento processuale ad aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra perquisizione e sequestro: l'art. 252 del codice di procedura penale impone il sequestro delle "cose rinvenute a seguito della perquisizione" e l'art. 103, comma VII, dello stesso codice espressamente sancisce l'inutilizzabilita' dei risultati delle perquisizioni allorquando queste sono state eseguite in violazione delle particolari garanzie di cui debbono fruire i difensori per poter esercitare congruamente il diritto di difesa. E non si vede perche' a diverse ed opposte conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una perquisizione sia stata comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative che assicurano, in concreto, l'attuazione di quella ineludibile garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta dall'art. 13, comma 2°, della Costituzione: si tratta pur sempre di un procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta ineludibile della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto che, per la sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la piu' radicale sanzione di cui l'ordinamento processuale dispone, e cioe' l'inutilizzabilita' della prova cosi' acquisita in ogni fase del procedimento.» Il prosieguo della statuizione della Suprema Corte si risolveva peraltro nella vanificazione della portata pratica di tali principi appena enunciati; continuava infatti detta sentenza affermando comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto, allorche' avesse ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato; di fatto, l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini probatori, sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo ne' al corpo del reato, ne' a cose pertinenti al reato; affermava infatti la Suprema Corte a SSUU: «Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca della prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della Costituzione, non puo', in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, e' altrettanto vero che allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un "atto dovuto", la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilita' penali, quali che siano state, in concreto, le modalita' propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta. Con cio' non si intende affatto affermare che l'oggetto del sequestro, a causa della sua intrinseca illiceita', ovvero per il rapporto strumentale che esso puo' esprimere in relazione al reato commesso, possa, per cio' solo, dissolvere quella connessione funzionale che lega la perquisizione alla scoperta ed all'acquisizione di cio' che si cercava, ma si vuole soltanto precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste dall'art. 253, comma 1°, del codice di procedura penale, gli aspetti strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un obbligo giuridico che trova la sua fonte di legittimazione nello stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale ed appagante giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia giudiziaria non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente legati al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o no - in cui egli si trovi ad operare». Concludevano quindi le SS.UU. osservando che gli agenti di polizia giudiziaria avrebbero poi potuto testimoniare sugli esiti della perquisizione, ferma restano l'inutilizzabilita' di essa in quanti tale (e cioe', par di capire, del verbale che ne documenta modalita', tempo, luoghi e risultato) . Da tale arresto delle Sezioni Unite ha tratto origine e sviluppo una giurisprudenza che si e' ancorata unicamente alle statuizioni circa la legittimita' ed utilizzabilita' a fini probatori del sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei principi affermati dalle stesse SS.UU. nella prima parte della propria statuizione, e che probabilmente avrebbero meritato una riflessione e sviluppo ulteriori: come, ad es. , quella che volesse limitare l'utilizzabilita' probatoria del sequestro alla res in quanto tale, cioe' nella sua materiale idoneita' a provare la sussistenza del fatto (si pensi al rinvenimento di un'arma o di sostanza stupefacenti, idonei a provare i reati di detenzione illecita di tali oggetti) ed a fungere da eventuale supporto di tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico suscettibile di comparazione del DNA) aventi carattere individualizzante: interpretazione, questa, sostenuta da questo Giudice in precedenti procedimenti, ma non condivisa dai Giudici competenti per i successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza che si e' richiamata e che delle citate SS.UU. coglieva, sostanzialmente, solo quanto risultante dal dispositivo e dalla massima. Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di e' monoliticamente assestata su tali esiti interpretativi, confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro conseguente ad una perquisizione illegittima, e la sua piena utilizzabilita' probatoria; si citano, ad es., ed in assenza di pronunzie di segno contrario, che lo scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire: Sez. 3, Ordinanza n. 3879 del 14/11/1997; Sez. 1, Sentenza n. 2791 del 27/01/1998, Sez. 5, Sentenza n. 6712 del 07/12/1998, Sez. 3, Sentenza n. 1228 del 17/03/2000, Sez. 4, Sentenza n. 8052 del 02/06/2000, Sez. 6, Sentenza n. 3048 del 03/07/2000, Sez. 2, Sentenza n. 12393 del 10/08/2000, Sez. 1, Sentenza n. 45487 del 28/09/2001, Sez. 1, Sentenza n. 41449 del 02/10/2001, Sez. 1, Sentenza n. 497 del 05/12/2002, Sez. 5, Sentenza n. 1276 del 17/12/2002, Sez. 2, Sentenza n. 26685 del 14/05/2003, Sez. 2, Sentenza n. 26683 del 14/05/2003, Sez. 1, Sentenza n. 18438 del 28/04/2006, Sez. 2, Sentenza n. 40833 del 10/10/2007, Sez. 6, Sentenza n. 37800 del 23/06/2010, Sez. 1, Sentenza n. 42010 del 28/10/2010, Sez. 2, Sentenza n. 31225 del 25/06/2014, Sez. 3, Sentenza n. 19365 del 17/02/2016, Sez. 2, Sentenza n. 15784 del 23/12/2016. Alla luce di richiamati principi espressi dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, questo giudicante ritiene che le norme vigenti, per come interpretate dalla giurisprudenza assolutamente prevalente (e tale da dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente), non siano rispettose del dettato costituzionale, ed in particolare degli articoli 3, 13, 14 e 117 (con riferimento all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) della Costituzione, nella parte in cui le norme di diritto ordinario consentono l'utilizzabilita' processuale - mediante deposizione testimoniale di chi abbia operato la perquisizione od ispezione illegittima, o la lettura od altra forma di utilizzazione del verbale di quanto risultante dalla perquisizione e dal sequestro - della valenza probatoria degli esiti di una perquisizione o ispezione e di quanto eventualmente sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali atti, allorche' tali atti di ricerca della prova siano eseguiti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; tra tali casi, deve farsi rientrare quello dell'autorizzazione data verbalmente dal pubblico ministero senza che ne risultino le ragioni, e quella in cui il pubblico ministero abbia successivamente convalidato la perquisizione senza motivare sulla ricorrenza dei casi in cui la legge assegna il relativo potere alla polizia giudiziaria. L'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza della illegittimita' della perquisizione sulla utilizzabilita' dei suoi esiti si risolverebbe quindi, del tutto paradossalmente, nella teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine (e sempre che la Corte costituzionale ne abbia dichiarato l'incostituzionalita') le leggi incostituzionali, ma efficacissimi gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino. Tale giurisprudenza, invero: a) sembra operare una confusione di piani tra il sequestro inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di fatto, e data l'estensione concettuale della nozione di cose pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso di perquisizione illegittima - solo del sequestro inutile: il che e' assolutamente inconferente rispetto alle tematiche e problematiche poste dall'art. 191 del codice di procedura penale; b) non considera che il sequestro non e' una prova, ma il mezzo che serve ad assicurare al processo la res che puo' essere fonte di prova; c) non considera che la valenza probatoria di una determinata res e' generalmente data non dalla sola cosa in se' (la quale puo' generalmente provare la sussistenza del fatto ma non necessariamente chi lo abbia commesso, se non nel caso in cui sulla res siano rinvenibili tracce biologiche, papillari o di altro genere che ne permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma anche dalle circostanze del suo rinvenimento, specie allorche' si tratti appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso (svelato dalla perquisizione) ad essere indizio grave di commissione del reato stesso; d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva non e' tanto la legittimita' del sequestro, quanto quella della perquisizione tramite la quale si e' rinvenuta la res (con suo successivo sequestro), atteso che e' la perquisizione che generalmente comprova quella relazione personale tra la cosa indiziante di delitto e l'autore dello stesso; e) non avverte che la ratio della norma di cui all'art. 191 del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge, e' quella di offrire un valido presidio ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivandone le violazioni finalizzate all'acquisizione della prova, rendendone inutilizzabili gli esiti probatori (si veda ad es. la disciplina della inutilizzabilita' delle intercettazioni illegittime ex art. 271 del codice di procedura penale; si pensi all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura penale di una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della persona dichiarante; si considerino le conseguenze di un'acquisizione di tabulati del traffico telefonico eseguita dalla polizia giudiziaria in assenza di provvedimento motivato dell'Autorita' giudiziaria); f) non assegna adeguato valore alla circostanza che una perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne ha il potere, e' un caso tipico di prova vietata dalla legge ed in violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli 13 e 14 della Costituzione; art. 8 CEDU), e la conseguenza deve necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati (come previsto dall'art. 13 comma 3 della Costituzione), conformemente a quella che e' la ratio dell'art. 191 del codice di procedura penale che, inibendo l'utilizzabilita' degli esiti delle prove vietate perche' assunte in violazione di diritti costituzionali, intende appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata agli esiti della perquisizione, equivale a negare la tutela del cittadino dai possibili abusi della polizia giudiziaria: tutela assicurata in via generale ed astratta dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma che verrebbe vanificata dall'incentivazione agli abusi per mancanza di conseguenze processuali relative alla inutilizzabilita' dei loro risultati; ed i drammatici fatti di Genova e di Bolzaneto appaiono esserne storica conferma e dimostrazione. Quella discendente dalla citata sentenza delle SS.UU. n. 5021 del 27 marzo 1996 appare quindi essere un'interpretazione dalla scarsa tenuta logica, idonea a fungere da vera e propria mina di irrazionalita', che si presta ad introdurre trattamenti irrispettosi del principio di eguaglianza delle situazioni processuali equiparabili: si pensi alla gia' richiamata giurisprudenza che riconosce la non utilizzabilita' di altre prove vietate, quali gli anonimi e le fonti confidenziali, nemmeno ai fini della legittimazione di una perquisizione. Tali considerazioni devono invece condurre a ritenere che una perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi utilizzabili ai fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo e' imposto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma anche da una piana lettura dell'art. 191 del codice di procedura penale rispettosa dei principi costituzionali, ma allo stato negata dal diritto vivente, il quale ultimo si pone pertanto in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 13, 14 e 3 della Costituzione. Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere di questo Giudice, i presupposti di applicabilita' della conseguenza della inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191 del codice di procedura penale, in base ad una piana lettura della norma ed alla ratio della stessa, come colta al punto f) che precede; ed infatti, appare evidente che la polizia giudiziaria, allorche' proceda ad un atto di perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compia un atto che le e' vietato - e non semplicemente un atto irrituale o nullo, come pure talora si e' sostenuto in talune pronunzie della Corte di cassazione - atteso che sia la legge ordinaria che quella costituzionale prevedono (oltre alla riserva di legge dettata dagli articoli 13 e 14 della Costituzione) una riserva del potere di perquisizione all'Autorita' giudiziaria, nella delineazione di una serie di garanzie a tutela della effettivita' dello Stato di diritto (e delle liberta' individuali che questo deve garantire), in cui i poteri della polizia e degli organi amministrativi sono sottoposti al principio di legalita', prevedendosi addirittura una riserva di potere dell'Autorita' giudiziaria, nei casi che coinvolgono l'esercizio di diritti costituzionali fondamentali dei privati (quali la liberta' personale e quella domiciliare, che ex art. 14, comma 2, della Costituzione e' «aggredibile» solo «negli stessi casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale»). L'interpretazione dominante che comunque consente di «recuperare» ed utilizzare gli esiti delle perquisizioni illegittime, negando l'applicabilita' dell'art. 191 del codice di procedura penale al sequestro del corpo del reato o di cosa pertinente al reato, appare pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia della perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse conseguenti, allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191 del codice di procedura penale, come esistente nel diritto vivente, appare quindi in contrasto con i predetti articoli 13 e 14 della Costituzione. Non e' peraltro fuori luogo osservare, come peraltro da tempo rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema Corte, che la ragione d'essere della disciplina delle inutilizzabilita' stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non e' tanto di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore di riconoscere valore probatorio ad atti illeciti), quanto di ordine politico costituzionale, essendosi rilevato che l'effettivita' della tutela dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di assunzione di prova in violazione di un divieto, riposa nel negare ogni utilizzabilita' a quanto cosi' venga acquisito: atteso che, grazie a tale divieto di utilizzabilita', si scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalita' illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali a cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. La giurisprudenza formatasi sulla scorta della citata Corte di cassazione SS.UU. 5021/1996 realizza, pertanto, anche una violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto del tutto irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio, nega la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del codice di procedura penale a casi del tutto sovrapponibili ad altri (per certi versi addirittura meno gravi) per i quali la legge espressamente la prevede: basti pensare, ad es., non solo alle ipotesi di intercettazioni eseguite d'iniziativa dalla polizia giudiziaria e quindi in assenza di decreto motivato dell'Autorita' giudiziaria (caso sanzionato di inutilizzabilita' dall'art. 271 del codice di procedura penale, avente la medesima ratio dell'art. 191 del codice di procedura penale), ma anche al caso dell'acquisizione dei tabulati del traffico telefonico eseguito senza provvedimento motivato del pubblico ministero, ipotesi che le stesse SS.UU. della Suprema Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo ad un'ipotesi di inutilizzabilita' della prova perche' acquista in violazione di un divieto di legge (cfr. Sez. U, Sentenza n. 21 del 13 luglio 1998). L'interpretazione stabilizzatasi dell'art. 191 del codice di procedura penale, in tema di conseguenza di una perquisizione illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro, si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di trattamento tra indagati in situazioni del tutto analoghe, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione Sempre in tema di violazione dell'art. 3 della Costituzione, appare necessario rilevare come tale norma si atteggi a scrigno in cui e' racchiuso in germe e riassunto il principio di necessaria razionalita' dell'ordinamento dello Stato di diritto disegnato dalla Costituzione; razionalita' che risulta gravemente violata dalla corrente interpretazione circa la utilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza della illegittimita' della perquisizione sulla utilizzabilita' dei suoi esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30, comma 3 e 4 legge n. 87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal giudice ordinario che ne ravvisi un possibile contrasto con le norme costituzionali, ma efficacissimi, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria - e non disapplicabili ne' discutibili dal Giudice - compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; b) la suddetta interpretazione appare realizzare una negazione radicale dei principi dello Stato di diritto quale tratteggiato dalla Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della Costituzione (come gia' si e' osservato), e piu' in particolare sviluppato dall'art. 2 della Costituzione, in quanto finisce per risolversi nell'assenza di effettive garanzie contro violazioni dei diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali appare senz'altro rientrare quello alla liberta' personale, laddove invece il suddetto art. 2 della Costituzione impone alla Repubblica non solo di riconoscere tali diritti, ma di garantirli: il che implica la necessaria adozione di tutte le cautele necessarie non solo a reprimere, ma prima di tutto a scoraggiare la violazione di tali diritti; e la sanzione dell'inutilizzabilita' probatoria che discenderebbe dall'art. 191 del codice di procedura penale (nella lettura che risulterebbe dall'operazione di ortopedia costituzionale che questo Giudicante ritiene necessaria), nel deprivare di effetti processuali il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce la prima e piu' efficace forma di garanzia che uno Stato di diritto possa assicurare ai diritti della persona; c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega lo Stato di diritto quale configurato dall'art. 97, comma 3, della Costituzione, che vuole - con norma generale che appare applicabile anche alle definizione dei poteri degli organi di polizia - l'azione dei pubblici poteri sottomessa al principio di legalita'; se, come gia' si e' osservato, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi di cui pur pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e se cio' comporta non solo l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per di piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di liberta' - degli atti compiuti dai pubblici poteri in violazione di un divieto, appare negare anche il principio di cui all'art. 97 della Costituzione, oltre ad attribuire all'azione illegale degli organi statuali una prevalenza sui diritti costituzionali dei consociati, che appare realizzare, sotto questo profilo, una ulteriore palese violazione dell'art. 3 della Costituzione, in un ordinamento che vuole centrali i diritti inviolabili della persona - e quindi quanto meno gli stessi sullo stesso piano di quelli della collettivita' e dello Stato - ma finisce invece per violare tale condizione di pari importanza per assegnare prevalenza all'interesse alla repressione dei reati; d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita', inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche', del tutto irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita' di prove vietate dalla legge solo in virtu' della loro non verificabilita' (scritti anonimi, fonti confidenziali), mentre la nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi appunto a come l'insondabilita' degli elementi che hanno spinto la polizia giudiziaria alla perquisizione (come detto, non e' chiarito come un ipovedente possa aver con certezza riconosciuto un giubbino di produzione industriale) non consenta di verificare la genuinita' della «catena indiziaria» e di escludere che possano essere stati proprio i terzi autori della propalazione confidenziale o anonima (ma in ipotesi non risultante neppure dal p.v. di perquisizione), o addirittura - come talora e' purtroppo accaduto - le stesse forze di polizia, ad introdurre nell'abitazione la «res illicita» costituente supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi, sotto tale profilo, anche un contrasto con l'art. 24 della Costituzione, per l'evidente limite che la tesi dell'utilizzabilita' pone all'esplicazione del diritto di difesa, introducendo nell'ambito delle prove utilizzabili elementi di cui sia di fatto impossibile verificare approfonditamente la genuinita'. L'interpretazione consolidatasi si pone infine in contrasto con l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, e quindi in contrasto con l'art. 117 della Costituzione che impone allo Stato italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in quanto si risolve nel non adottare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia, e di qualsiasi organo dello Stato in genere, che, limitando la liberta' della persona, si risolvano in indebite interferenze nella sua vita privata o nel suo domicilio, non giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o repressione dei reati. A parere di questo giudicante, la conseguenza della dedotta incostituzionalita' e' anche il divieto di testimonianza, per gli operatori di polizia giudiziaria, in ordine al risultato delle attivita' di ispezione, perquisizione e sequestro indebitamente eseguite; tale divieto, invero, appare conseguire alla perdita di ogni efficacia di tali attivita'; ammettere tali deposizioni, peraltro, equivarrebbe a vanificare tale divieto e la ratio sottostante ai divieti di utilizzabilita' di cui all'art. 191 del codice di procedura penale. Ne consegue che la questione e' rilevante nel presente giudizio anche laddove si volesse ipotizzare, per ovviare alla inutilizzabilita' che dovrebbe essere ravvisata nelle perquisizioni, l'assoluta necessita' di procedere, ex art. 507 del codice di procedura penale, all'ascolto dei verbalizzanti in ordine a quanto rinvenuto nell'abitazione dell'imputato ed in spazi a lui assegnati all'interno di essa: ed invero, come osservato, la sanzione dell'inutilizzabilita' dovrebbe investire, in un'interpretazione corretta dell'art. 191 del codice di procedura penale, anche l'eventuale deposizione in ordine agli esiti della perquisizione illegittima.