IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE 
                        Sezione prima penale 
 
    In composizione monocratica in persona del giudice dott.  Stefano
Sernia. 
    Sciogliendo la riserva formulata all'udienza  dibattimentale  del
giorno 27 settembre 2018 nel processo nei confronti di: 
        P G , nato a ... il ... 
        C M , nata a ... il ... 
    letti gli atti e sentite le parti, ha pronunziato la seguente: 
 
                              Ordinanza 
 
    Si procede a giudizio abbreviato a  seguito  di  rituale  istanza
avanzata dai difensori di fiducia degli imputati, muniti  di  procura
speciale; gli imputati sono liberi ed assenti. 
    La  prova  riposa  pressocche'  interamente  sugli  esiti   della
perquisizione eseguita dalla polizia giudiziaria presso  l'abitazione
degli imputati,  su  autorizzazione  orale  del  pubblico  ministero,
rilasciata dopo che la polizia giudiziaria aveva segnalato  che  P  L
aveva riferito di aver incontrato per causa gli  imputati,  rilevando
che il P indossava il giubbino  che  al  P  era  stato  sottratto  in
occasione di un furto consumato da ignoti presso  la  sua  abitazione
alcuni giorni prima;  venivano  cosi'  rinvenuti  gli  altri  oggetti
indicati in imputazione, provenienti dal medesimo furto;  non  e'  in
atti il verbale delle dichiarazioni in tal senso  rese  dal  P  ,  il
quale   peraltro    e'    soggetto    ipovedente,    come    indicato
nell'informativa, sicche' non e'  chiarito  come  questi  possa  aver
formulato quel giudizio di certezza in ordine  all'identita'  tra  il
giubbino indossato dal P e quello sottratto dalla propria abitazione:
valutazione gia' ardua per persone normovedenti, dato che i  capi  di
abbigliamento sono oggetto  di  produzione  seriale  che  ne  annulla
l'individualita'. 
    In assenza degli esiti della perquisizione,  difetterebbe  quindi
una prova adeguata di responsabilita'. 
    Occorre  quindi  interrogarsi  sulla  liceita'  -  e  conseguente
utilizzabilita' - della perquisizione, oggetto un'attivita' della cui
legittimita' costituzionale appare oltremodo dubbia la ricorrenza. 
    Premesso che dall'art. 382 del  codice  di  procedura  penale  si
evince che la situazione di  flagranza  e'  quella  che  si  presenta
allorche' la consumazione del reato cade sotto  la  percezione  degli
organi di polizia giudiziaria, ovvero  questi  rilevano  direttamente
sulla persona del reo tracce altamente significative che  egli  abbia
appena commesso un delitto, e non gia' ne abbiano notizia da parte di
terzi (cfr. ad es. quanto statuito dalla nota sentenza della Corte di
cassazione SS.UU. n. 39131 del 24 novembre 2015, che ha precisato che
«E'  illegittimo  l'arresto  in  flagranza  operato   dalla   polizia
giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o  da
terzi nell'immediatezza del fatto,  poiche',  in  tale  ipotesi,  non
sussiste la condizione di "quasi flagranza", la quale  presuppone  la
immediata  ed  autonoma  percezione,  da   parte   di   chi   proceda
all'arresto,  delle  tracce  del  reato  e  del   loro   collegamento
inequivocabile con l'indiziato»), va invece osservato che,  nel  caso
in  oggetto,  l'eventuale  prova  di  accusa  poggerebbe   tutta   ed
esclusivamente sugli esiti della perquisizione  domiciliare  eseguita
dalla polizia giudiziaria fuori del caso della flagranza del reato  e
senza che siano esplicate le evidenze fattuali, di diretta percezione
ad opera della polizia  giudiziaria,  che  possano  aver  indotto  al
compimento di un atto, che gli articoli 14 e  13  della  Costituzione
vogliono essere del tutto eccezionale, e  che  le  stesse  norme  che
consentono la perquisizione fuori dei casi di flagranza (peraltro non
applicabili al caso in oggetto) vincolano a precisi presupposti. 
    Si pone quindi il problema della liceita' della  perquisizione  e
della utilizzabilita' dei suoi esiti; e della costituzionalita' della
disciplina in tal senso vigente, quale risultante del diritto vivente
nascente dalla monolitica giurisprudenza di legittimita', stabilmente
applicata anche in sede locale dal competente Tribunale del riesame e
dalla Corte di appello. 
    La questione e' gia' stata sollevata da questo stesso  magistrato
quale  GUP  con  ordinanza  emessa  in  data  5   ottobre   2017,   e
successivamente nuovamente e piu'  approfonditamente  articolata  con
ordinanza emessa, sempre in veste di GUP,  ed  alle  udienze  del  12
dicembre 2017 e del 13 settembre 2018  (in  due  distinti  processi),
quale Giudice del dibattimento; di tali ordinanze si  riproducono  in
questa sede le argomentazioni. 
    Invero, la situazione di flagranza di reato, che evidentemente si
e' manifestata solo dopo  la  perquisizione,  non  puo'  aver  quindi
svolto la funzione di  preventiva  legittimazione  di  tale  atto  di
ricerca della prova, che la legge ordinaria (articoli 354 e  356  del
codice di procedura penale) e costituzionale (articoli 13 e 14  della
Costituzione) assegnano solo in via eccezionale all'ambito dei poteri
della polizia giudiziaria, in deroga al principio  generale  per  cui
simili atti, limitando la liberta' personale (e della  inviolabilita'
del domicilio per quel che attiene alla  perquisizione  domiciliare),
possono essere disposti solo dall'Autorita' giudiziaria e nei casi  e
modi previsti dalla legge. 
    Cio'  premesso,  va  sottolineata  la  cautela  del   legislatore
costituzionale, che ha assegnato solo  all'Autorita'  giudiziaria  il
potere di disporre atti di  perquisizione  ed  ispezione,  prevedendo
solo  in  via  eccezionale  quelli  [rectius  quello]  della  polizia
giudiziaria ed entro ambiti ben delimitati, fissati  dalla  legge,  e
con rispetto delle garanzie di liberta' della persona. 
    I limiti fissati dalla legge si atteggiano,  invero,  in  ragione
della previsione costituzionale che li assiste, come  invalicabili  e
di  stretta  interpretazione;  e   qualsiasi   interpretazione   che,
comunque, si risolva in  una  vanificazione  dei  limiti  posti  alla
polizia giudiziaria (ad es., impedendo la verifica circa il  rispetto
di tali  limiti;  o  stabilendo  l'irrilevanza  processuale  di  tali
violazioni) o nella lesione -  sia  pure  mediata  -  della  liberta'
personale, appare da rigettarsi. 
    Invero,  l'art.  13  della  Costituzione  (richiamato,  quanto  a
garanzie e forme ivi previste, dall'art.  14  della  Costituzione  in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri  domiciliari)  prescrive
che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra  i  quali
annovera non solo l'arresto o il fermo, ma anche le  perquisizioni  e
le  ispezioni   personali   - sia   riservato   ad   «atto   motivato
dell'autorita' giudiziaria e nei soli  casi  e  modi  previsti  dalla
legge»;  riserva  di  legge   e   di   provvedimento   dell'Autorita'
giudiziaria, quindi, cui puo' derogarsi  solo  per  casi  eccezionali
previsti dalla legge, atteso che la  norma  prosegue  prevedendo  che
solo  «in  casi  eccezionali  di  necessita'  ed  urgenza,   indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto  ore  all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di ogni efficacia». 
    L'art. 14 della Costituzione estende agli atti  di  perquisizione
domiciliare le garanzie dettate per le  perquisizioni  personali,  in
considerazione   della   primaria   importanza    che    la    tutela
dell'inviolabilita'  del  domicilio   assume   quale   strumento   di
protezione della sfera spaziale in cui si svolge l'abituale esercizio
di fondamentali diritti della persona. 
    I suddetti  diritti  sono  quindi  assistiti  -  a  sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico  dell'ordinamento  repubblicano
voluto dal Legislatore costituzionale come fondato  sulla  tutela  di
quelle  liberta'  individuali  tendenzialmente  negate  o  fortemente
compresse dal precedente regime -  da  un  corredo  di  significative
cautele date  dalla  riserva  di  legge,  dalla  riserva  del  potere
giudiziario, dall'obbligo di provvedere con atto motivato. 
    Solo in casi eccezionali di necessita'  ed  urgenza,  che  spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle forze di polizia, che di  tali  compiti  sono  titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito  un  potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in  caso
di  mancata  convalida  da  parte  dell'Autorita'   giudiziaria   con
provvedimento che, sebbene cio' non sia espressamente previsto  dalla
norma, deve ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato  che  non
vi e' ragione di ritenere  che  il  Legislatore  costituzionale,  per
l'ipotesi  di  particolare  delicatezza  costituzionale  data   della
convalida (la cui funzione e' verificare che la  polizia  giudiziaria
non abbia agito in tali delicatissime  materie  abusando  dei  propri
poteri, fuori dei casi in cui essi  sono  loro  riconosciuti),  abbia
voluto esonerare l'Autorita' giudiziaria dalla necessita' di motivare
i propri provvedimenti (come peraltro previsto gia' in  via  generale
dall'art. 111, comma 6, della Costituzione). 
    Come si e' accennato, tali  garanzie  sono  estese  dall'art.  14
della Costituzione anche al caso  delle  perquisizioni,  ispezioni  e
sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma  opera  alle
garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per  la  tutela
della liberta' personale. 
    L'ipotesi principale ed originaria prevista dalla legge ordinaria
a legittimare l'intervento eccezionale delle  forze  di  polizia,  e'
data dai casi di flagranza di reato, allorche' gli organi di  polizia
intervengono in un momento in cui il reato e' in corso di esecuzione,
o il reo, subito dopo la commissione del reato, ne  reca  indosso  le
tracce, o e' inseguito dalla  polizia,  dalla  persona  offesa  o  da
altri: casi di evidenza probatoria che, nel giudizio del legislatore,
rendono  meno  pericolosa  la   deroga   ai   poteri   dell'Autorita'
giudiziaria  (cfr.  sul  punto  anche  Corte  di  cassazione   SS.UU.
39131/2015 che ha anche statuito, in tale linea di pensiero,  che  la
c.d. quasi flagranza rileva  solo  in  quanto  le  forze  di  polizia
abbiano assistito alla commissione del reato o  abbiano  direttamente
percepito le tracce del reato sulla persona del reo). 
    Non si e' mai dubitato che le ipotesi della flagranza  di  reato,
concorrendo  il  requisito  della  pericolosita'   dell'autore   come
segnalata  dalla  sua  personalita'  o  dalla  gravita'   del   reato
(pericolosita' e gravita' presunte nei casi dei piu' gravi delitti di
cui all'art. 380 del codice di procedura penale, e da  valutarsi  nel
concreto nei casi di cui all'art. 381 del codice di procedura penale)
valgano ad  individuare  delle  ipotesi  generali  di  necessita'  ed
urgenza  tassativamente  ben  delineate,  in   cui   si   giustifichi
l'esercizio provvisorio dei poteri di arresto da parte della  polizia
giudiziaria; cosi, in relazione alla gravita' del reato (che la legge
ancora all'entita' della  pena  o  all'appartenenza  a  ben  definite
tipologie di delitto), il pericolo di fuga appare altra situazione di
necessita' ed urgenza che legittimi l'esercizio del potere di fermo e
la conseguente restrizione della liberta' personale. 
    Allo stesso modo, senz'altro la flagranza del reato  integra  una
situazione di necessita' ed urgenza quanto agli atti di perquisizione
e  conseguente  sequestro  ad  opera   della   polizia   giudiziaria,
finalizzati ad acquisire al processo fonti di prova che altrimenti il
reo, sapendo di' essere stato scoperto, provvederebbe  verosimilmente
a distruggere o disperdere; sicche' anche gli articoli 352 e 354  del
codice  di  procedura  penale   appaiono   rispettosi   del   dettato
costituzionale. 
    Sia per le perquisizioni e sequestri che per gli atti di  arresto
e fermo, la legge prevede poi la necessita' della convalida da  parte
dell'Autorita' giudiziaria, con provvedimento motivato, ed il dettato
costituzionale e' rispettato. 
    Puo' qui tralasciarsi la considerazione dei  casi  in  cui  norme
speciali hanno ampliato i casi in cui  alla  polizia  giudiziaria  e'
consentito procedere ad  atti  di  ispezione  e  perquisizione,  solo
osservando che sia l'art. 4 della legge n. 152/1975,  che  l'art.  41
del TULPS, che l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 309/1990,  pongono,  a  fondamento  dei  poteri   eccezionali   di
perquisizione di polizia giudiziaria fuori dei casi di flagranza,  la
necessaria ricorrenza di situazioni oggettive («specifiche o concrete
circostanze di tempo o di luogo»; «fondato motivo»;  «indizio»  ecc.)
atte  a  significare  la  probabilita'  di  attuale  commissione   di
specifici delitti (tra i quali, e'  noto,  non  rientra  peraltro  la
ricettazione). 
    Fuori  delle  ipotesi  speciali  appena  richiamate,  la  polizia
giudiziaria puo' procedere a perquisizione domiciliare (o  personale)
solo in caso di flagranza di reato; e  1'Autorita'  giudiziaria  deve
operare un controllo effettivo sulla legalita' di tali perquisizioni,
emettendo quindi un decreto motivato. 
    Ed invero, sviluppando ulteriormente l'argomento gia' svolto  con
le precedenti ordinanze di rimessione, va ritenuto  che  nel  disegno
costituzionale - che intende fondare  uno  stato  di  pieno  diritto,
retto dal principio di  legalita'  e  dalla  previsione  di  garanzie
giurisdizionali a verifica e controllo del modo e dei casi in cui  le
forze di polizia usino dei loro poteri, al fine di evitarne l'abuso -
non possano sussistere limiti alla verifica giurisdizionale suddetta.
Ammettere  quindi  che  la  polizia  giudiziaria  possa  procedere  a
perquisizione  fuori  dei  casi   di   flagranza,   o   su   asserita
autorizzazione orale e non documentata del pubblico  ministero  (che,
si noti, ha successivamente  convalidato  sia  il  sequestro  che  la
perquisizione,  pur  senza  nulla  specificare  sui  presupposti   di
quest'ultima), equivale a negare la necessita' dell'esercizio  di  un
effettivo potere di verifica, da  parte  dell'Autorita'  giudiziaria,
che la legge ordinaria - e la Costituzione ancor  prima  -  impongono
debba sussistere. 
    Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto  conseguente,  che,  a
fondamento   della   legittimita'    di    una    perquisizione,    e
dell'utilizzabilita' dei suoi  esiti,  debba  essere  necessario  che
l'Autorita' giudiziaria abbia effettivamente  preventivamente  e  con
atto motivato autorizzato la  perquisizione,  o,  successivamente,  e
sempre con atto motivato, verificato la ricorrenza  della  condizione
di flagranza (o altra situazione prevista  da  norma  speciale),  che
legittimi  l'esercizio  dei   poteri   di   accesso   domiciliare   o
perquisizione personale in capo alla  polizia  giudiziaria;  in  caso
contrario si avrebbe -  oltre  che  degli  articoli  13  e  14  della
Costituzione  -  una  violazione  degli  articoli  111  e  117  della
Costituzione (con riferimento all'art. 6  della  Convenzione  Europea
per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo) essendo solo apparente  la
possibilita'  di  godere  dell'esame  di  un  giudice  imparziale  ed
indipendente, laddove questo Giudice non abbia un adeguato potere  di
verifica   delle   circostanze   costituenti   elementi   a    carico
dell'imputato. 
    E' bene sottolineare che questo Giudice ha sottolineato i profili
di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano,  a
presupposto  degli  atti   di   perquisizione,   elementi   probatori
particolarmente  deboli  o  inutilizzabili,  al  solo  fine  di   far
risaltare l'importanza da riconoscersi  alla  tutela  della  liberta'
personale e dell'inviolabilita' del domicilio  e  come  tali  materie
siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di  uno  Stato  di
diritto, come disegnato dalla Costituzione e dalla CEDU,  in  cui  il
riconoscimento   di   diritti   fondamentali   della    persona    e'
necessariamente accompagnato dalla previsione di un Giudice non  solo
imparziale ed  indipendente,  ma  anche  dotato  degli  strumenti  di
verifica  e  controllo  atti  ad  assicurarne   l'effettiva   tutela;
peraltro, in uno Stato di diritto, lo Stato e di suoi organi sono per
primi vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur  pretendono
l'osservanza da parte  dei  consociati,  e  cio'  comporta  non  solo
l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire  l'effettivo
rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono. 
    Nella giurisprudenza della  Corte  di  cassazione  si  rinvengono
pronunzie che statuiscono la nullita' del  decreto  di  perquisizione
emesso dal pubblico ministero  in  base  a  notizie  confidenziali  o
denunzie anonime: 
        Sez. 6, Sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito
che «E' configurabile l'esimente della reazione.  ad  atti  arbitrari
del pubblico ufficiale qualora il privato opponga  resistenza  ad  un
pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il  suo  domicilio
una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art.  4  della legge  22
marzo 1975, n.152, alla ricerca di armi e munizioni fondata  su  meri
sospetti e  non  su  dati  oggettivi  certi,  anche  solo  a  livello
indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel  luogo  in  cui
viene eseguito l'atto. (Fattispecie  in  cui  la  Corte  ha  ritenuto
immune da  vizi  la  mancata  convalida  dell'arresto  per  il  reato
previsto dall'art.337 del codice di procedura penale all'imputato per
essersi opposto alla perquisizione disposta dopo la contestazione  di
una contravvenzione al codice  stradale,  senza  che  fossero  emersi
indizi significativi circa il possesso di armi o di oggetti  atti  ad
offendere); 
        Sez. 6, Sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016, che ha statuito
che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere  a
perquisizioni, sequestri e intercettazioni  telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.  Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce  anonime
possono stimolare l'attivita' di iniziativa del pubblico ministero  e
della polizia giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati  conoscitivi,
diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi  utili
per l'individuazione di una «notitia criminis». (In  applicazione  di
tale principio,  la  Corte  ha  ritentato  legittimi  l'attivita'  di
perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale
informatico eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata
sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era  emersa
la pubblicazione in rete di numerosi post  a  contenuto  diffamatorio
pubblicati mediante l'account creato sul social  network  facebook  a
nome dell'imputato, indagato  in  relazione  ai  reati  di  cui  agli
articoli 278, 291 e 214 del codice di procedura penale). 
        Sez. 6, Sentenza n. 36003  del  21  settembre  2006,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di' reita'. Tuttavia, gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del  Pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione di  una  «notitia  criminis».  (In
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che  la  polizia
giudiziaria aveva  legittimamente  proceduto  alla  perquisizione  di
un'autovettura e al conseguente sequestro di  sostanza  stupefacente,
dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul
posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato). 
        Sez. 5, Ordinanza n. 37941  del  13  maggio  2004  ,  che  ha
statuito che: «Il decreto  di  perquisizione  e  sequestro  emesso  a
seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione
di una «notitia criminis» e non come mezzo di ricerca della prova, e'
nullo. Infatti la  denuncia  confidenziale  o  anonima,  che  non  e'
inseribile  agli  atti  e  non  e'  utilizzabile,  non  puo'   essere
qualificata come una notizia di  reato  idonea  a  dare  inizio  alle
indagini  preliminari,  cosicche'  l'accusa  non  puo'  procedere   a
perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'. 
    Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema  Corte,
che a parere di questo giudicante rispondono pienamente  ai  principi
costituzionali  e  convenzionali  nella  individuazione  del  minimum
probatorio necessario  a  rendere  legittima  una  perquisizione;  di
talche' non puo' ritenersi la ricorrenza di un  diritto  vivente  che
imponga di denunziare l'illegittimita' costituzionale  delle  opposte
interpretazioni,   pur   non   assenti   nella   giurisprudenza    di
legittimita'. 
    Il caso presente differisce pero'  da  quelli  considerati  dalle
richiamate pronunzie della Suprema  Corte,  riguardando  il  caso  di
perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria  fuori  dei  casi  di
flagranza, su autorizzazione orale del pubblico ministero o da questi
convalidate fuori dei casi previsti dalla legge e comunque in assenza
di motivazione specifica  su  tali  presupposti  della  perquisizione
(come e' nel caso in oggetto, in cui si  e'  fatto  riferimento  solo
alla situazione di urgenza che legittimava il sequestro ex  art.  354
del codice di procedura penale). 
    Riprendendo  le  fila  del  discorso,  poiche'   all'atto   della
perquisizione cui venne  sottoposto  l'imputato  non  risultava  gia'
evincibile una situazione di flagranza, quella compiuta dalla polizia
giudiziaria si manifesta come una perquisizione  domiciliare  abusiva
perche' assolutamente ingiustificata per l'assenza di un valido  atto
autorizzativo e compiuta al di fuori di una situazione di flagranza. 
    Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state
convalidate dal  pubblico  ministero  con  un  provvedimento  la  cui
motivazione non attesta alcuna delle situazioni che,  normativamente,
legittimano  la  polizia  giudiziaria  a   procedere   ad   atti   di
perquisizione domiciliare (o personale). 
    Non ricorrendo le ipotesi della  flagranza  o  le  altre  ipotesi
previste da leggi speciali che  a  tanto  facultizzino  le  forze  di
polizia, deve ritenersi che gli atti di  perquisizione,  ispezione  e
sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti in violazione di un
divieto, derivante dalla generale riserva  di  tali  atti  alla  sola
Autorita' giudiziaria; la conseguenza,  in  base  a  quanto  previsto
dall'art. 191  del  codice  di  procedura  penale,  che  sancisce  la
inutilizzabilita' delle prove vietate dalla  legge,  dovrebbe  quindi
essere la inutilizzabilita' degli esiti di detta perquisizione; ma la
giurisprudenza della Suprema Corte, come meglio oltre  si  dira',  e'
assolutamente   di   segno   contrario,   nonostante   la    sanzione
dell'inutilizzabilita' sembri emergere gia' direttamente a livello di
previsione costituzionale. 
    Come si e' detto, gli articoli 13 e 14  della  Costituzione  (che
infatti  richiama  le  garanzie  dell'art.  13  della   Costituzione)
prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto  ore  all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere  di  questo
Giudice,  che  gli  atti  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro
abusivamente compiuti dalla polizia giudiziaria o  non  motivatamente
convalidati dall'Autorita' giudiziaria rimangano senza effetto  anche
sul piano probatorio; la legge ordinaria ha  quindi  dato  attuazione
alla  previsione  costituzionale,  prevedendo  casi   tassativi   per
l'esercizio dei poteri di arresto, fermo, perquisizione, ispezione  e
sequestro da parte delle forze di polizia, ed ha  introdotto  in  via
generale,  con  l'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   la
previsione  della  inutilizzabilita'   delle   prove   acquisite   in
violazione di un divieto di legge; come pero' si vedra',  il  diritto
vivente quale  discendente  dalla  monolitica  interpretazione  delle
norme di legge (in particolare, proprio dell'art. 191 del  codice  di
procedura   penale)   dettate   a   sanzione   di   inutilizzabilita'
dell'assunzione di prove vietate dalla legge, non assegna conseguenze
di inutilizzabilita' agli  esiti  delle  perquisizioni  ed  ispezioni
compiute dalle forze di polizia fuori dei casi in cui la legge glielo
consente; con il prevedere l'utilizzabilita' probatoria del corpo  di
reato e delle cose  pertinenti  al  reato  acquisite  grazie  a  tali
perquisizioni ed ispezioni, anche se avvenute  in  violazione  di  un
divieto, la  Giurisprudenza  della  Suprema  Corte  (vero  e  proprio
diritto vivente, stante la sua monoliticita'),  a  parere  di  questo
Giudice, vanifica le  garanzie  costituzionali,  dando  luogo  ad  un
diritto vivente che si pone in contrasto con esse, come meglio  oltre
si dira'. 
    A prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13,  comma
3, della Costituzione, gia'  le  ordinarie  disposizioni  processuali
dovrebbero    condurre    al    risultato    interpretativo     della
inutilizzabilita' degli esiti  della  perquisizione  illegittima,  in
presenza di una norma,  come  l'art.  191  del  codice  di  procedura
penale, che sanziona con l'inutilizzabilita' le  prove  acquisite  in
violazione di un divieto di legge. 
    Ribadito che le prove  a  carico  degli  imputati  consistono  di
quanto rinvenuto nella sua abitazione a seguito di una  perquisizione
domiciliare al di fuori dei casi e  modi  previsti  dalla  legge,  va
osservato che, in forza di quanto previsto dagli  articoli  13  e  14
della  Costituzione,  cio'  dovrebbe  condurre  all'inutilizzabilita'
probatoria degli  esiti  della  perquisizione  e  del  sequestro,  in
quanto, essendo stata la perquisizione eseguita fuori dei casi e modi
tassativamente  previsti  dalla   legge   e   non   convalidata   con
provvedimento motivato  (sul  punto  relativo  ai  presupposti  della
perquisizione) dell'Autorita' giudiziaria, detti atti,  in  forza  di
quanto previsto dalle suddette norme  costituzionali,  «si  intendono
revocati e restano privi di ogni efficacia»: con  linguaggio  la  cui
chiarezza  non  e'  stata   finora   adeguatamente   apprezzata,   il
Legislatore costituzionale  aveva  cioe'  chiaramente  introdotto  la
sanzione dell'inutilizzabilita' degli esiti  degli  atti  di  polizia
giudiziaria  illegittimamente  invadenti  la  sfera  della   liberta'
personale. 
    Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata  non  solo  alla  illegittima
esecuzione di  atti  di  arresto  o  di  fermo,  ma  genericamente  e
complessivamente  al  caso  dell'adozione  dei   «provvedimenti»   di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori  dei  casi  previsti
dalla legge; e -  a  meno  di  voler  affermare  che  il  Legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e  scarsa  padronanza
la lingua italiana - i provvedimenti in  questione  non  possono  non
essere che tutti quelli contemplati  dalla  norma  stessa,  e  quindi
anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13  della
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione  che
voglia  limitare  la  previsione  costituzionale  della  «perdita  di
efficacia»  ai  soli   provvedimenti   soppressivi   della   liberta'
personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che  l'art.  13  della
Costituzione utilizza una formula onnicomprensiva  (i  «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla  polizia  giudiziaria)  che  a  tutti  i
provvedimenti da detta  norma  contemplati  risulta  riferirsi,  come
evincibile  anche  dalla  disciplina  adottata  dall'art.  14   della
Costituzione, che espressamente li richiama «nominatim»  («ispezioni,
perquisizioni o sequestri»)  prevedendone  l'adottabilita'  da  parte
della polizia giudiziaria «secondo  le  garanzie  prescritte  per  la
tutela della liberta' personale» . 
    Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e di  cui  la  norma  costituzionale  si'  e'  preoccupata  di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto  ad  atti  di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti  e  terminati
nella loro esecuzione  (come  e'  necessariamente,  dato  che  ne  e'
prevista la convalida entro novantasei  ore  al  massimo  dalla  loro
esecuzione),  e'  solo  quella  che  attiene  alla   loro   capacita'
probatoria; la sanzione di perdita dell'efficacia equivale  quindi  a
quella,  nel  linguaggio  del  codice  di   procedura   repubblicano,
quarant'anni   dopo   l'approvazione   della   Costituzione,    della
inutilizzabilita' introdotta dall'art. 191 del  codice  di  procedura
penale per le prove assunte in violazione di un divieto di legge. 
    E' bene precisare che l'art. 13 della Costituzione riconnette  la
conseguenza delle perdita di efficacia degli atti  di  polizia,  alla
circostanza  che  essi   non   vengano   convalidati   dall'Autorita'
giudiziaria  in  un  termine  dato;   ma   la   ratio   della   norma
costituzionale  sarebbe  senz'altro  frustrata  se  la  convalida  si
risolvesse in una pura forma non esprimente  un  effettivo  controllo
circa la legalita'  dell'atto  di  polizia  giudiziaria;  di  qui  la
prescrizione (a parere di  questo  Giudice  evincibile  dal  comma  2
dell'art. 13 della Costituzione,  come  si  e'  gia'  osservato)  che
l'atto di convalida debba essere motivato, poiche'  e'  solo  con  un
atto avente tali caratteristiche che  l'art.  13  della  Costituzione
consente che l'Autorita' giudiziaria incida sulla liberta' personale:
e non  avrebbe  senso  prevedere  la  necessita'  dell'atto  motivato
allorche' l'Autorita' giudiziaria, titolare in via ordinaria di  tale
potere, proceda  di  sua  iniziativa,  e  non  gia'  allorche'  debba
verificare che la polizia giudiziaria non abbia  esorbitato  dai  (od
addirittura abusato dei) casi del tutto eccezionali in cui  la  legge
le concede di intervenire in materia di liberta' personale. 
    E' quindi ovvio che, nel sistema  delineato  dall'art.  13  della
Costituzione,  la  convalida  operi  in  quanto  espressione  di   un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta  ricorrenza  dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione  personale  (non
e' un caso, ad es., che lo stesso art. 103 del decreto del Presidente
della repubblica n. 309/1990 prevede, come  peraltro  e'  ovvio,  che
l'Autorita'  giudiziaria  convalidera'  la  perquisizione   «ove   ne
ricorrano  i  presupposti»),  e   non   sia   sufficiente   un   mero
provvedimento   di   convalida   assolutamente    immotivato    sulla
ravvisabilita'  della  situazione  legittimante   la   perquisizione,
personale o domiciliare: situazione che, nel vigente sistema, e' data
fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato  o  dalla
ricorrenza di fondate ragioni che inducano  a  ritenere  che  sia  in
corso l'esecuzione di un delitto in materia di  stupefacenti  o  armi
(con riferimento alle due norme - gli articoli 103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 del TULPS - legittimanti
la perquisizione fuori del casi di flagranza, di  maggiore  rilevanza
statistica). 
    Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di  legge
ordinaria,  impongono  che   la   polizia   giudiziaria   proceda   a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla  legge,  e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria. 
    Infatti,  a  proposito  della  necessita'  di'  una   valutazione
concreta e condivisibile da parte dell'Autorita'  giudiziaria,  circa
la ricorrenza di ragioni adeguatamente giustificatrici dell'esercizio
del potere di perquisizione,  va  anche  richiamata,  per  l'assoluta
importanza  della  fonte,  che   assegna   alla   decisione   rilievo
costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza  l6  marzo
2017, Modestou c. Grecia, con la quale la Corte Europea  dei  Diritti
dell'Uomo (d'ora in  poi  per  brevita'  CEDU)  ha  ritenuto  essersi
verificata violazione dell'art. 8 Cedu, in un caso in cui  era  stata
eseguita perquisizione presso il domicilio personale e  professionale
del ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e  sulla
scorta di  un  mandato  di  perquisizione  generico;  ne'  era  stato
previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post,  considerato
che la Corte d'appello,  adita  dal  ricorrente,  aveva  respinto  la
doglianza non  solo  piu'  di  due  anni  dopo  la  perquisizione  in
questione,  ma  nemmeno  indicando  neppure  i  motivi  «rilevanti  e
sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale
si trae quindi conferma che 1'Autorita' giudiziaria debba operare una
illustrazione  motivata  (e  condivisibile)   delle   ragioni   della
perquisizione,  al  fine  di  rendere  verificabile  la  legittimita'
dell'esercizio del relativo potere; statuizione che, se vale  per  le
perquisizioni autorizzate dall'Autorita' giudiziaria , deve a maggior
ragione  valere  per  quelle  operate  direttamente   dalla   polizia
giudiziaria   e   successivamente   convalidate    dalla    Autorita'
giudiziaria. 
    Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato  che
l'art. 13 della Costituzione  ricollega  la  salvezza  degli  effetti
dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che,  sebbene  le
nullita' degli atti per difetto  di  motivazione  siano  generalmente
rilevabili ad  eccezione  di  parte,  in  questo  caso  debba  invece
ritenersi che la ricorrenza di un  atto  di  convalida  adeguatamente
motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti
dell'atto di polizia giudiziaria, sia un elemento  della  fattispecie
«sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio;  cosi'
come dovra' verificarsi che, a prescindere  da  quanto  eventualmente
affermato col provvedimento di convalida (si pensi ad es. al caso  di
una motivazione non aderente ai dati fattuali emergenti dagli atti; o
che da  questi  tragga  conclusioni  assolutamente  illogiche  o  non
giustificate) , ricorressero effettivamente i presupposti perche'  la
polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri  previsti  in  via  del
tutto eccezionale (sul punto, relativo alla portata dell'art. 191 del
codice di procedura penale, si dira' meglio oltre). 
    Tanto  premesso,  va  peraltro  preso   atto   che   tali   esiti
epistemologici  sono  estranei  alla  interpretazione  accolta  dalla
giurisprudenza   assolutamente   dominante   che,    a    far    data
dall'insegnamento  espresso  dalle  Sezioni  Unite  della  Corte   di
cassazione con la sentenza n. 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto  la
piena utilizzabilita' probatoria degli esiti  delle  perquisizioni  e
sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria al  di  fuori  dei  casi
previsti dalla legge, pur  prendendo  le  mosse  .da  statuizioni  di
principio di segno apparentemente opposto alle conclusioni finali. 
    In realta', con la suddetta  sentenza,  le  Sezioni  Unite  della
Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato  a  chiare
lettere che la conseguenza di un'attivita' di  illecita  acquisizione
della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non  puo'
limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o  penali  nei
confronti   dell'autore    dell'illecito,    ma    deve    comportare
l'inutilizzabilita'  della  prova  stessa,  statuendo  che:  «non  e'
certamente difficile riconoscere che  allorquando  una  perquisizione
sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non  nei
"casi" e nei  "modi"  stabiliti  dalla  legge,  cosi'  come  disposto
dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza  di  un  mezzo  di
ricerca della prova che non e' piu' compatibile  con  la  tutela  del
diritto di  liberta'  del  cittadino,  estrinsecabile  attraverso  il
riconoscimento dell'inviolabilita'  del  domicilio.  L'illegittimita'
della ricerca di una prova,  pur  quando  non  assuma  le  dimensioni
dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 del codice  penale),  non  puo'
esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione  del
diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione  di
sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che  ne  sono
stati gli autori. La  perquisizione,  oltre  ad  essere  un  atto  di
investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una
prova  preesistente  e,  quindi,  diviene  partecipe  del   complesso
procedimento  acquisitivo  della  prova,   a   causa   del   rapporto
strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo'
essere necessario o utile ai  fini  della  indagine:  nessuna  prova,
diversa da  quelle  che  possono  formarsi  soltanto  nel  corso  del
procedimento, potrebbe  essere  acquisita  al  processo  se  una  sua
ricerca non sia  stata  compiuta  e  questa  non  abbia  avuto  esito
positivo. 
    Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca  di  una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se  stessa  sottratta   alla   materiale   possibilita'   di   essere
suscettibile di una diretta utilizzazione  nel  processo  penale,  e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che  avvince  la  ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. 
    Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non  e'
esauribile  nell'area  riduttiva  di   una   mera   consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in  numerose  pronunce  di  questa
Corte prima dell'entrata in vigore  del  nuovo  codice  di  procedura
penale, e com'e' stato, anche in  epoca  successiva,  qualche  volta,
ribadito (cfr. Sez.1-17.2.1976 ric. Cavicchia; Sez. VI-23.1.1973 ric.
Ferraro; Sez. V-24.11.1977 ric.  Manussardi;  Sez.  1-15.3.1984  ric.
Zoccoli;  Sez.  VI-24.4.1991  ric.  Lione;  Sez.   V-12.1.1994   ric.
Vetralla,  etc):  la  perquisizione  non  e'  soltanto  l'antecedente
cronologico del sequestro. ma rappresenta lo strumento giuridico  che
rende possibile il ricorso al sequestro.» 
    Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero  che  esista
una distinzione concettuale tra  la  perquisizione,  quale  mezzo  di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di  acquisizione
della  prova,  cio'  non  ha   alcuna   rilevanza   ai   fini   della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che: 
        «la  stessa  utilizzabilita'  della  prova  e'   pur   sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento  acquisitivo
che si sottragga, in ogni  sua  fase,  a  quei  vizi  che,  incidendo
negativamente sull'esercizio di  diritti  soggettivi  irrinunciabili,
non  possono  non  diffondere  i  loro  effetti  sul  risultato  che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito.  Del  resto,  non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso  ordinamento  processuale  ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra  perquisizione
e sequestro: l'art. 252 del codice  di  procedura  penale  impone  il
sequestro delle "cose rinvenute  a  seguito  della  perquisizione"  e
l'art. 103, comma VII, dello  stesso  codice  espressamente  sancisce
l'inutilizzabilita' dei  risultati  delle  perquisizioni  allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle  particolari  garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter  esercitare  congruamente
il diritto di difesa. E non si vede  perche'  a  diverse  ed  opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una  perquisizione  sia  stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano,  in  concreto,  l'attuazione  di  quella  ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13, comma 2°, della Costituzione: si tratta pur  sempre  di
un  procedimento  acquisitivo  della  prova   che   reca   l'impronta
ineludibile della subita lesione ad un  diritto  soggettivo,  diritto
che, per la sua rilevanza costituzionale,  reclama  e  giustifica  la
piu' radicale sanzione di cui l'ordinamento  processuale  dispone,  e
cioe' l'inutilizzabilita' della prova cosi' acquisita  in  ogni  fase
del procedimento.» 
    Il prosieguo della statuizione della Suprema Corte  si  risolveva
peraltro nella vanificazione della portata pratica di  tali  principi
appena  enunciati;  continuava  infatti  detta  sentenza   affermando
comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto,  allorche'  avesse
ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato;  di  fatto,
l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini  probatori,
sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi
comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo  ne'  al  corpo
del reato, ne' a cose  pertinenti  al  reato;  affermava  infatti  la
Suprema Corte a SSUU: 
        «Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca  della
prova  del  commesso  reato,   allorquando   assume   le   dimensioni
conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a  tutela  dei
diritti  soggettivi  oggetto  di  specifica  tutela  da  parte  della
Costituzione, non puo', in linea  generale,  non  diffondere  i  suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire,  e'  altrettanto  vero  che  allorquando  quella  ricerca,
comunque effettuata, si  sia  conclusa  con  il  rinvenimento  ed  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a  quel  sequestro  si  sia  pervenuti:  in  questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto  di  una  situazione  non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un "atto dovuto",  la
cui omissione esporrebbe  gli  autori  a  specifiche  responsabilita'
penali,  quali  che  siano   state,   in   concreto,   le   modalita'
propedeutiche e funzionali  che  hanno  consentito  l'esito  positivo
della ricerca compiuta. 
    Con cio' non si  intende  affatto  affermare  che  l'oggetto  del
sequestro, a causa della sua intrinseca  illiceita',  ovvero  per  il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in  relazione  al  reato
commesso,  possa,  per  cio'  solo,  dissolvere  quella   connessione
funzionale   che   lega   la   perquisizione   alla    scoperta    ed
all'acquisizione di  cio'  che  si  cercava,  ma  si  vuole  soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste  dall'art.
253,  comma  1°,  del  codice  di  procedura  penale,   gli   aspetti
strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi  del  procedimento
acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di
un obbligo giuridico che trova la sua fonte di  legittimazione  nello
stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale  ed  appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia  giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente  legati
al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o  no  -  in
cui egli si trovi ad operare». 
    Concludevano quindi  le  SS.UU.  osservando  che  gli  agenti  di
polizia giudiziaria avrebbero poi  potuto  testimoniare  sugli  esiti
della perquisizione, ferma restano  l'inutilizzabilita'  di  essa  in
quanti tale (e cioe', par di capire, del  verbale  che  ne  documenta
modalita', tempo, luoghi e risultato) . 
    Da tale arresto delle Sezioni Unite ha tratto origine e  sviluppo
una giurisprudenza che si e'  ancorata  unicamente  alle  statuizioni
circa  la  legittimita'  ed  utilizzabilita'  a  fini  probatori  del
sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei
principi affermati  dalle  stesse  SS.UU.  nella  prima  parte  della
propria statuizione,  e  che  probabilmente  avrebbero  meritato  una
riflessione e sviluppo ulteriori: come, ad es. , quella  che  volesse
limitare l'utilizzabilita'  probatoria  del  sequestro  alla  res  in
quanto tale,  cioe'  nella  sua  materiale  idoneita'  a  provare  la
sussistenza del fatto (si pensi  al  rinvenimento  di  un'arma  o  di
sostanza  stupefacenti,  idonei  a  provare  i  reati  di  detenzione
illecita di tali oggetti) ed  a  fungere  da  eventuale  supporto  di
tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico  suscettibile
di  comparazione  del  DNA)   aventi   carattere   individualizzante:
interpretazione, questa, sostenuta da questo  Giudice  in  precedenti
procedimenti,  ma  non  condivisa  dai  Giudici  competenti   per   i
successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza  che
si e' richiamata e che delle citate SS.UU. coglieva, sostanzialmente,
solo quanto risultante dal dispositivo e dalla massima. 
    Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di
e'  monoliticamente   assestata   su   tali   esiti   interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro  conseguente
ad una perquisizione illegittima,  e  la  sua  piena  utilizzabilita'
probatoria; si citano, ad es., ed in assenza di  pronunzie  di  segno
contrario, che lo scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire: 
        Sez. 3, Ordinanza n. 3879 del 14/11/1997; Sez. 1, Sentenza n.
2791 del 27/01/1998, Sez. 5, Sentenza n. 6712 del 07/12/1998, Sez. 3,
Sentenza n. 1228  del  17/03/2000,  Sez.  4,  Sentenza  n.  8052  del
02/06/2000, Sez. 6, Sentenza n. 3048 del 03/07/2000, Sez. 2, Sentenza
n. 12393 del 10/08/2000, Sez. 1, Sentenza n.  45487  del  28/09/2001,
Sez. 1, Sentenza n. 41449 del 02/10/2001, Sez. 1, Sentenza n. 497 del
05/12/2002, Sez. 5, Sentenza n. 1276 del 17/12/2002, Sez. 2, Sentenza
n. 26685 del 14/05/2003, Sez. 2, Sentenza n.  26683  del  14/05/2003,
Sez. 1, Sentenza n. 18438 del 28/04/2006, Sez. 2, Sentenza  n.  40833
del 10/10/2007, Sez. 6, Sentenza n. 37800  del  23/06/2010,  Sez.  1,
Sentenza n. 42010 del 28/10/2010,  Sez.  2,  Sentenza  n.  31225  del
25/06/2014, Sez.  3,  Sentenza  n.  19365  del  17/02/2016,  Sez.  2,
Sentenza n. 15784 del 23/12/2016. 
    Alla luce di richiamati principi espressi dagli articoli 13 e  14
della Costituzione, questo giudicante ritiene che le  norme  vigenti,
per come interpretate dalla giurisprudenza  assolutamente  prevalente
(e tale da dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente), non siano
rispettose  del  dettato  costituzionale,  ed  in  particolare  degli
articoli  3,  13,  14  e  117  (con  riferimento  all'art.  8   della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo) della Costituzione,  nella
parte   in   cui   le   norme   di   diritto   ordinario   consentono
l'utilizzabilita' processuale - mediante deposizione testimoniale  di
chi abbia operato la perquisizione od  ispezione  illegittima,  o  la
lettura od  altra  forma  di  utilizzazione  del  verbale  di  quanto
risultante dalla  perquisizione  e  dal  sequestro  -  della  valenza
probatoria degli esiti di una perquisizione o ispezione e  di  quanto
eventualmente sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali  atti,
allorche' tali atti di  ricerca  della  prova  siano  eseguiti  dalla
polizia giudiziaria fuori dei casi in cui la legge  costituzionale  e
quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; tra tali  casi,
deve farsi rientrare quello dell'autorizzazione data verbalmente  dal
pubblico ministero senza che ne risultino le ragioni, e quella in cui
il  pubblico   ministero   abbia   successivamente   convalidato   la
perquisizione senza motivare sulla ricorrenza  dei  casi  in  cui  la
legge assegna il relativo potere alla polizia giudiziaria. 
    L'interpretazione   maggioritaria   circa   l'irrilevanza   della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti  si  risolverebbe  quindi,  del  tutto  paradossalmente,  nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
(e  sempre  che  la  Corte   costituzionale   ne   abbia   dichiarato
l'incostituzionalita') le leggi  incostituzionali,  ma  efficacissimi
gli atti di polizia giudiziaria compiuti in  violazione  dei  diritti
costituzionali del cittadino. 
    Tale giurisprudenza, invero: 
        a) sembra operare una confusione di piani  tra  il  sequestro
inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di
fatto,  e  data  l'estensione  concettuale  della  nozione  di   cose
pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso  di
perquisizione illegittima - solo del sequestro  inutile:  il  che  e'
assolutamente inconferente rispetto alle  tematiche  e  problematiche
poste dall'art. 191 del codice di procedura penale; 
        b) non considera che il sequestro non e'  una  prova,  ma  il
mezzo che serve ad assicurare al processo  la  res  che  puo'  essere
fonte di prova; 
        c) non considera che la valenza probatoria di una determinata
res e' generalmente data non dalla sola cosa in se'  (la  quale  puo'
generalmente provare la sussistenza del fatto ma non  necessariamente
chi lo abbia commesso, se  non  nel  caso  in  cui  sulla  res  siano
rinvenibili tracce biologiche, papillari o di  altro  genere  che  ne
permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma  anche
dalle circostanze del suo rinvenimento, specie  allorche'  si  tratti
appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso  (svelato  dalla
perquisizione) ad essere  indizio  grave  di  commissione  del  reato
stesso; 
        d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva  non
e'  tanto  la  legittimita'  del  sequestro,  quanto   quella   della
perquisizione tramite la quale  si  e'  rinvenuta  la  res  (con  suo
successivo  sequestro),  atteso   che   e'   la   perquisizione   che
generalmente  comprova  quella  relazione  personale  tra   la   cosa
indiziante di delitto e l'autore dello stesso; 
        e) non avverte che la ratio della norma di cui  all'art.  191
del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle
prove acquisite in violazione di un divieto di legge,  e'  quella  di
offrire un valido presidio ai diritti  costituzionalmente  garantiti,
disincentivandone le violazioni  finalizzate  all'acquisizione  della
prova, rendendone inutilizzabili gli esiti probatori (si veda ad  es.
la   disciplina   della   inutilizzabilita'   delle   intercettazioni
illegittime ex art. 271 del codice  di  procedura  penale;  si  pensi
all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura  penale  di
una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che
possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della  persona
dichiarante; si considerino  le  conseguenze  di  un'acquisizione  di
tabulati del traffico telefonico eseguita dalla  polizia  giudiziaria
in assenza di provvedimento motivato dell'Autorita' giudiziaria); 
        f) non assegna  adeguato  valore  alla  circostanza  che  una
perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne  ha  il
potere, e' un  caso  tipico  di  prova  vietata  dalla  legge  ed  in
violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli  13
e 14  della  Costituzione;  art.  8  CEDU),  e  la  conseguenza  deve
necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati  (come
previsto dall'art. 13 comma 3 della  Costituzione),  conformemente  a
quella che e' la ratio dell'art. 191 del codice di  procedura  penale
che, inibendo  l'utilizzabilita'  degli  esiti  delle  prove  vietate
perche' assunte in  violazione  di  diritti  costituzionali,  intende
appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; 
        g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la
possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata  agli  esiti
della perquisizione, equivale a negare la tutela  del  cittadino  dai
possibili abusi della polizia giudiziaria: tutela assicurata  in  via
generale ed astratta dagli articoli 13 e 14  della  Costituzione,  ma
che verrebbe vanificata dall'incentivazione agli abusi  per  mancanza
di conseguenze processuali relative alla inutilizzabilita'  dei  loro
risultati; ed i drammatici fatti di Genova e  di  Bolzaneto  appaiono
esserne storica conferma e dimostrazione. 
    Quella discendente dalla citata sentenza delle SS.UU. n. 5021 del
27 marzo 1996 appare quindi essere  un'interpretazione  dalla  scarsa
tenuta  logica,  idonea  a  fungere  da  vera  e  propria   mina   di
irrazionalita', che si presta ad introdurre trattamenti  irrispettosi
del   principio   di   eguaglianza   delle   situazioni   processuali
equiparabili:  si  pensi  alla  gia'  richiamata  giurisprudenza  che
riconosce la non utilizzabilita' di altre prove  vietate,  quali  gli
anonimi  e  le   fonti   confidenziali,   nemmeno   ai   fini   della
legittimazione di una perquisizione. 
    Tali considerazioni devono invece condurre  a  ritenere  che  una
perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza
che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non
solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi  utilizzabili  ai
fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo  e'
imposto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma  anche  da  una
piana lettura dell'art. 191 del codice di procedura penale rispettosa
dei  principi  costituzionali,  ma  allo  stato  negata  dal  diritto
vivente, il quale ultimo si pone pertanto in contrasto con i principi
costituzionali di cui agli articoli 13, 14 e 3 della Costituzione. 
    Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere  di  questo
Giudice, i presupposti  di  applicabilita'  della  conseguenza  della
inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191  del  codice  di
procedura penale, in base ad una piana lettura della  norma  ed  alla
ratio della stessa, come colta al punto f) che precede;  ed  infatti,
appare evidente che la polizia giudiziaria, allorche' proceda  ad  un
atto di perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compia un atto
che le e' vietato - e non semplicemente un atto  irrituale  o  nullo,
come pure talora si e' sostenuto in talune pronunzie della  Corte  di
cassazione  -  atteso  che  sia  la  legge   ordinaria   che   quella
costituzionale prevedono (oltre alla riserva di legge  dettata  dagli
articoli 13 e 14  della  Costituzione)  una  riserva  del  potere  di
perquisizione all'Autorita' giudiziaria, nella  delineazione  di  una
serie di garanzie a tutela della effettivita' dello Stato di  diritto
(e delle liberta' individuali che questo deve garantire),  in  cui  i
poteri della polizia e degli organi amministrativi sono sottoposti al
principio di  legalita',  prevedendosi  addirittura  una  riserva  di
potere  dell'Autorita'  giudiziaria,   nei   casi   che   coinvolgono
l'esercizio di diritti costituzionali fondamentali dei privati (quali
la liberta' personale e quella domiciliare, che ex art. 14, comma  2,
della Costituzione e' «aggredibile» solo «negli stessi  casi  e  modi
stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte  per  la  tutela
della liberta' personale»). 
    L'interpretazione dominante che comunque consente di «recuperare»
ed utilizzare gli  esiti  delle  perquisizioni  illegittime,  negando
l'applicabilita' dell'art. 191 del  codice  di  procedura  penale  al
sequestro del corpo del reato o di cosa pertinente al  reato,  appare
pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli  articoli
13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia  della
perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse  conseguenti,
allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191  del  codice
di procedura penale,  come  esistente  nel  diritto  vivente,  appare
quindi  in  contrasto  con  i  predetti  articoli  13  e   14   della
Costituzione. 
    Non e' peraltro fuori luogo osservare,  come  peraltro  da  tempo
rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema  Corte,  che
la  ragione  d'essere  della   disciplina   delle   inutilizzabilita'
stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non  e'  tanto
di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore  di  riconoscere
valore probatorio  ad  atti  illeciti),  quanto  di  ordine  politico
costituzionale, essendosi rilevato che  l'effettivita'  della  tutela
dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di
assunzione di prova in violazione di un divieto,  riposa  nel  negare
ogni utilizzabilita' a quanto  cosi'  venga  acquisito:  atteso  che,
grazie  a  tale  divieto  di  utilizzabilita',  si  scoraggeranno   e
disincentiveranno quelle pratiche di  acquisizione  della  prova  con
modalita' illegali (e talora francamente  illecite),  che  violano  i
diritti costituzionali a cui presidio sono appunto  posti  i  divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. 
    La giurisprudenza  formatasi  sulla  scorta  della  citata  Corte
di cassazione  SS.UU.  5021/1996  realizza,   pertanto,   anche   una
violazione dell'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  del  tutto
irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio,  nega
la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del  codice
di procedura penale a casi del tutto  sovrapponibili  ad  altri  (per
certi  versi  addirittura  meno  gravi)  per   i   quali   la   legge
espressamente la prevede:  basti  pensare,  ad  es.,  non  solo  alle
ipotesi  di  intercettazioni  eseguite  d'iniziativa  dalla   polizia
giudiziaria e quindi in assenza di  decreto  motivato  dell'Autorita'
giudiziaria (caso sanzionato di inutilizzabilita' dall'art.  271  del
codice di procedura penale, avente la medesima  ratio  dell'art.  191
del codice di procedura penale), ma anche al  caso  dell'acquisizione
dei tabulati del traffico  telefonico  eseguito  senza  provvedimento
motivato del pubblico ministero, ipotesi che le stesse  SS.UU.  della
Suprema Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo ad un'ipotesi di
inutilizzabilita' della prova perche' acquista in  violazione  di  un
divieto di legge (cfr. Sez. U, Sentenza n. 21 del 13 luglio 1998). 
    L'interpretazione stabilizzatasi  dell'art.  191  del  codice  di
procedura  penale,  in  tema  di  conseguenza  di  una  perquisizione
illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro,
si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di
trattamento tra  indagati  in  situazioni  del  tutto  analoghe,  con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione 
    Sempre in tema di  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione,
appare necessario rilevare come tale norma si atteggi  a  scrigno  in
cui e' racchiuso in germe e  riassunto  il  principio  di  necessaria
razionalita' dell'ordinamento dello Stato di diritto disegnato  dalla
Costituzione;  razionalita'  che  risulta  gravemente  violata  dalla
corrente interpretazione circa la utilizzabilita' degli  esiti  delle
perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: 
        a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza  della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30, comma 3 e 4 legge n.
87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal giudice ordinario  che
ne ravvisi un possibile contrasto con  le  norme  costituzionali,  ma
efficacissimi, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia
giudiziaria - e non disapplicabili  ne'  discutibili  dal  Giudice  -
compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; 
        b)  la  suddetta  interpretazione   appare   realizzare   una
negazione  radicale  dei  principi  dello  Stato  di  diritto   quale
tratteggiato dalla Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della
Costituzione (come gia' si  e'  osservato),  e  piu'  in  particolare
sviluppato dall'art. 2 della  Costituzione,  in  quanto  finisce  per
risolversi nell'assenza di effettive garanzie contro  violazioni  dei
diritti  inviolabili  dell'uomo,  tra  i  quali   appare   senz'altro
rientrare quello alla liberta' personale, laddove invece il  suddetto
art.  2  della  Costituzione  impone  alla  Repubblica  non  solo  di
riconoscere tali  diritti,  ma  di  garantirli:  il  che  implica  la
necessaria adozione  di  tutte  le  cautele  necessarie  non  solo  a
reprimere, ma prima di tutto a  scoraggiare  la  violazione  di  tali
diritti;  e  la  sanzione   dell'inutilizzabilita'   probatoria   che
discenderebbe dall'art. 191 del codice  di  procedura  penale  (nella
lettura che risulterebbe dall'operazione di ortopedia  costituzionale
che questo Giudicante ritiene necessaria), nel deprivare  di  effetti
processuali il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce
la prima e piu' efficace forma di garanzia che uno Stato  di  diritto
possa assicurare ai diritti della persona; 
        c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega  lo  Stato
di  diritto  quale  configurato  dall'art.   97,   comma   3,   della
Costituzione, che vuole - con norma generale che  appare  applicabile
anche alle definizione dei poteri degli organi di polizia -  l'azione
dei pubblici poteri sottomessa al principio di  legalita';  se,  come
gia' si e' osservato, in uno Stato di diritto, lo  Stato  ed  i  suoi
organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi  di  cui  pur
pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e se  cio'  comporta
non solo l'impegno a non violare tali leggi,  ma  anche  a  garantire
l'effettivo  rispetto  dei  diritti  che  tali  leggi  prevedono   ed
attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per di
piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di  liberta'  -
degli atti compiuti dai pubblici poteri in violazione di un  divieto,
appare  negare  anche  il  principio  di  cui   all'art.   97   della
Costituzione, oltre ad attribuire all'azione  illegale  degli  organi
statuali una prevalenza sui diritti  costituzionali  dei  consociati,
che appare realizzare, sotto questo  profilo,  una  ulteriore  palese
violazione dell'art. 3 della  Costituzione,  in  un  ordinamento  che
vuole centrali i diritti inviolabili della persona - e quindi  quanto
meno gli stessi sullo stesso piano di quelli  della  collettivita'  e
dello Stato - ma finisce invece per violare tale condizione  di  pari
importanza per assegnare prevalenza  all'interesse  alla  repressione
dei reati; 
        d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di  prove  vietate  dalla  legge  solo  in  virtu'  della  loro   non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi  che  hanno   spinto   la   polizia
giudiziaria alla perquisizione (come detto, non e' chiarito  come  un
ipovedente possa  aver  con  certezza  riconosciuto  un  giubbino  di
produzione industriale) non  consenta  di  verificare  la  genuinita'
della «catena indiziaria» e di escludere  che  possano  essere  stati
proprio i terzi autori della propalazione confidenziale o anonima (ma
in ipotesi non risultante  neppure  dal  p.v.  di  perquisizione),  o
addirittura - come talora e' purtroppo accaduto - le stesse forze  di
polizia, ad introdurre nell'abitazione la «res illicita»  costituente
supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi, sotto  tale  profilo,
anche un contrasto con l'art. 24 della Costituzione,  per  l'evidente
limite che la tesi  dell'utilizzabilita'  pone  all'esplicazione  del
diritto di difesa, introducendo nell'ambito delle prove  utilizzabili
elementi di cui sia di fatto impossibile verificare approfonditamente
la genuinita'. 
    L'interpretazione consolidatasi si pone infine in  contrasto  con
l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, e quindi in
contrasto con l'art. 117 della Costituzione  che  impone  allo  Stato
italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in  quanto  si
risolve nel non adottare efficaci disincentivi agli abusi delle forze
di polizia, e  di  qualsiasi  organo  dello  Stato  in  genere,  che,
limitando  la  liberta'  della  persona,  si  risolvano  in  indebite
interferenze  nella  sua  vita  privata  o  nel  suo  domicilio,  non
giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o  repressione  dei
reati. 
    A parere di  questo  giudicante,  la  conseguenza  della  dedotta
incostituzionalita' e' anche il divieto  di  testimonianza,  per  gli
operatori di  polizia  giudiziaria,  in  ordine  al  risultato  delle
attivita'  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro  indebitamente
eseguite; tale divieto, invero, appare  conseguire  alla  perdita  di
ogni  efficacia  di  tali  attivita';  ammettere  tali   deposizioni,
peraltro,  equivarrebbe  a  vanificare  tale  divieto  e   la   ratio
sottostante ai divieti di utilizzabilita' di  cui  all'art.  191  del
codice di procedura penale. 
    Ne consegue che la questione e' rilevante nel  presente  giudizio
anche   laddove   si   volesse   ipotizzare,   per    ovviare    alla
inutilizzabilita' che dovrebbe essere ravvisata nelle  perquisizioni,
l'assoluta necessita'  di  procedere,  ex  art.  507  del  codice  di
procedura penale, all'ascolto dei verbalizzanti in  ordine  a  quanto
rinvenuto nell'abitazione dell'imputato ed in spazi a  lui  assegnati
all'interno  di  essa:  ed  invero,  come  osservato,   la   sanzione
dell'inutilizzabilita'  dovrebbe  investire,  in   un'interpretazione
corretta  dell'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   anche
l'eventuale deposizione in  ordine  agli  esiti  della  perquisizione
illegittima.